Siamo l’unico Paese che continua a mandare nei campi schiavi neri invece di meccanizzare la raccolta. In questo modo importiamo persone dal basso impatto economico (negativo se includiamo il welfare) e perdiamo giovani italiani laureati che potrebbero lavorare in settori come la ricerca.
L’Italia esporta giovani brillanti. Laureati, ricercatori, professionisti qualificati che arricchiscono il paese che li accoglie.
Nel 2016 si stima che oltre 285.000 italiani abbiano lasciato la loro casa, una cifra vicina all’emigrazione che si registrò nell’immediato dopoguerra. Anche se gli espatri registrati sono «soltanto» 104.000. E tra gli italiani emigrati si calcola siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati. La loro formazione ha avuto un costo per l’Italia, che investe circa 130.000 euro pro capite per l’intero percorso di studi fino alla laurea.
Intanto in Italia approdano migliaia di immigrati. La maggioranza però non ha alcuna qualifica, non parla la nostra lingua, non ha un mestiere, cerca soltanto di fuggire dalla disperazione. Dunque nel migliore dei casi rappresenta manodopera a basso costo per il lavoro nei campi o per l’assistenza domestica, colf e badanti. Nel peggiore manodopera per la criminalità. Certo si potrebbe investire nella loro formazione per qualificarli ma a questo punto il paradosso è evidente. Gli italiani formati a spese dell’Italia arricchiscono gli altri paesi mentre il nostro deve continuare ad investire se vuole che i migranti in arrivo da noi migliorino le loro condizioni. Sono pochi infatti rispetto alla media europea i giovani stranieri laureati. Solo l’11,8 per cento tra gli stranieri tra i 30 ed i 34 anni ha un titolo terziario.
Eppure si continua a parlare molto di immigrazione e troppo poco di emigrazione. A denunciare il disinteresse per l’emorragia di giovani in continua crescita c’è tra gli altri anche Tuttoscuola la rivista specializzata attenta al mondo della formazione che si rivolge al governo giallo verde per chiedere se non ritenga la questione giovanile «una questione di straordinaria importanza, che dovrebbe trovarsi in cima all’impegno del Governo prima ancora di alcune decine di migliaia di migranti disperati che ogni anno premono sulle nostre coste».
I dati forniti dall’Aire, l’Anagrafe dei residenti all’estero, confermano la fuga degli italiani verso paesi che offrono loro prospettive migliori: nel 2006 erano poco più di 3 milioni nel 2017 sono saliti a 4 milioni 973.000. E da dove partono? Non più dal Sud. Nel 2016 in testa c’è la Lombardia con 22.981 registrazioni, seguita dal Veneto con oltre 11.000. Vista la mancanza di prospettive e anche di attenzione sembra poi che i giovani non credano neanche più nelle possibilità offerte dall’Università. E infatti i laureati in Italia diminuiscono. Siamo al penultimo posto in Europa prima della Romania: solo il 18,7 per cento degli italiani tra i 25 ed i 64 anni possiede un titolo di studio terziario. Quindi in pratica un laureato su tre non resta in Italia. Aumentano i Neet, ovvero i ragazzi tra i 15 ed i 29 anni che non studiano né lavorano. In Italia hanno raggiunto la cifra record di 2 milioni e 189.000 nel 2017. Rappresentano il 24,1 per cento contro la media Ue del 13,4.
Francesca Angeli, del Giornale, coglie nel segno.
Stiamo investendo nel futuro. Un futuro di povertà e disperazione. L’esito inevitabile di una società che esporta cervelli e importa africani: i peggiori tra gli africani, come ci ha spiegato il presidente nigeriano.
In Italia record di migranti analfabeti, li scaricano tutti qui
Ma anche se importassimo la crème di quei Paesi, sarebbe, lo stesso, una catastrofe.
L’Italia è, da sempre, un territorio privo di risorse del sottosuolo: non abbiamo petrolio, non abbiamo quantità significative di minerali. Tutta la ricchezza di questa penisola, da sempre, dipende esclusivamente dalle capacità dei suoi abitanti.
E la capacità è la diretta espressione dell’intelligenza. Questo vuol dire che se per qualsiasi motivo, l’intelligenza collettiva di chi risiede in Italia – la media tra i suoi abitanti – dovesse scendere, o peggio crollare, assisteremmo ad un declino dell’unica risorsa disponibile: l’intelligenza. E quindi del livello di benessere raggiungo.
Ci sono due modi perché questo declino si possa verificare. Per una involuzione endogena: la società attuale tende in effetti ad un futuro in stile Idiocracy, e i motivi sono molteplici, il primo è che la pressione evolutiva non premia più le persone intelligenti, ma semmai una minoranza di ‘molto intelligenti’ e poi una massa di idioti totali. Ma questo processo, come tutti i processi evolutivi, sarebbe lento, molto lento. Poi c’è un metodo più veloce per abbassare il nostro QI (quoziente intellettivo): importare individui con il QI più basso del nostro. E questo lo stiamo facendo.
Che impatto ha, sul nostro QI, e di conseguenza sul nostro futuro benessere, lo sbarco dei cosiddetti profughi? Quanto pesa, ogni sbarco sul nostro QI?
Partiamo da un primo dato. Il QI medio degli italiani è uno dei più alti al mondo. Il più alto in Europa insieme a quello tedesco e olandese:

Ci sono variazioni tra le regioni, ma sono entro valori del ‘Flynn Effect’ (FE), ovvero rientrano in lievi differenze dovute a fattori socioeconomici come, ad esempio, scuole migliori che possono generare differenze di pochi punti.
Ma al di là del FE, le differenze di QI sono dovute a fattori ereditari: genetici. Quindi non sono eliminabili con l’ambiente. Il figlio dell’africano che viene in Italia, anche frequentando scuole lombarde, non aumenterà mai il proprio QI fino al livello italiano.
E qui arriviamo al problema: il QI medio dei cosiddetti profughi che Renzi raccatta in Libia ogni giorno è 69: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0160289609001275
Tra il QI medio italiano (104) e quello subsahariano corrono circa 35 punti. Un abisso. Il QI medio di un individuo con la sindrome di Down (che sono persone fantastiche, ma che hanno bisogno di sostegno) è 50.
Secondo Wikipedia: possono essere specificati 4 diversi gradi di ritardo intellettivo[2]:
- lieve (85% dei casi), QI da 50-55 a 70
- moderato (10%), QI da 35-40 a 50-55
- grave (3-4%), QI da 20-25 a 35-40
- gravissimo (1-2%), QI inferiore 20-25.
Significa che, mediamente, quelli che sbarcano rientrano nella categoria di ‘ritardo lieve’. Che significa:
Il ritardo lieve è difficilmente evidenziabile nei primi anni di vita, questo perché nei bambini così piccoli le difficoltà motorie, prassiche e linguistiche non sono molto visibili[1], inoltre la compromissione in queste aree è lieve e non facilmente distinguibile dalle capacità dei bambini senza ritardo fino ad una età più avanzata[2]. Il periodo iniziale in cui si nota il problema è quello dell’inserimento nella frequenza scolastica, quando possono sopraggiungere difficoltà nell’apprendimento. Infatti, spesso si consiglia la permanenza nella scuola dell’infanzia fino ai 6 anni perché questi bambini imparano a leggere e scrivere tardivamente rispetto alla norma e generalmente intorno all’età di 7-8 anni.
Censis boccia immigrazione: importiamo capitale umano di scarsa qualità
Fino all’età di circa vent’anni i soggetti affetti dalla patologia necessitano di un sostegno nell’adattamento scolastico e sociale. Possono conseguire un’autonomia sociale e lavorativa adeguata per un livello minimo di autosostentamento, ma ugualmente necessiteranno di supporto.
Vista la correlazione diretta tra ricchezza prodotta e QI, questo avrà un impatto devastante sulla nostra economia, perché stiamo importando individui il cui QI rientra nella categoria di ‘ritardati lievi’, quindi da sostenere socialmente ed economicamente.
Perché sia chiaro: l’Africa è un continente ricchissimo, e la povertà relativa dipende tutta dai suoi abitanti. Che noi stiamo travasando in Italia, dove non avremo nemmeno le ricchezze del sottosuolo a salvarci.