Migranti islamici: “Le donne italiane sono puttane”

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Bisogna fare i complimenti a Repubblica. Non è da tutti vergare quasi 7mila battute di articolo senza mai centrare il cuore del problema che si vuol narrare. Un migliaio di parole senza mai usare la parola islam, senza citare i ghetti, la sharia, il brodo culturale di certe comunità islamiche in Italia. Sembra quasi che Hina, la ragazza assassinata dalla famiglia nel 2006, sia morta per colpa di una “religione” a caso. Vittima della follia che colpisce chiunque. Del male generato dal mondo. Ma senza un nome.

Hina Saleem abita a Zanzano di Sarezzo, vicino Brescia. Veste all’occidentale, vive all’occidentale. Troppo, per la famiglia di religione islamica che l’ha messa al mondo. Nel 2003 subisce i primi maltrattamenti. “Si accaniscono su mi me – racconta – mi accusano di usare atteggiamenti da cristiana e non da musulmana”. La maledicono. La madre la ricopre di insulti. Il padre, invece, passa alle mani. “Mi ha afferrato il polso sinistro, torcendomi il braccio dietro la schiena mentre con la mano destra mi tappava la bocca”. Costretta a mettersi supina, l’ha imbavagliata per impedirle di gridare. Mohamed Saleem si giustifica così: “Non volevo che diventasse una puttana come tutte le altre”.

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Il punto è che “puttana” non sta per donna di facili costumi. Non che la cosa ovviamente giustifichi alcuna violenza. Qui “puttana” sta per “occidentale”, cioè “libera”. Puttana significa “italiane” in generale, quelle che bevono con gli amici, girano a capo scoperto, lavorano. Vivono. Il 10 agosto del 2006 Hina lascia il bar dove lavora, dà appuntamento al fidanzato italiano ma non ci arriva mai. Quando i carabinieri bussano a casa della famiglia e entrano, trovano sangue ovunque e il cadavere con la gola squarciata seppellito senza ritegno nell’orto. Il processo sarà breve, le condanne scontate: per il padre ed alcuni complici.

Per Repubblica Hina muore per colpa di un mix tra “religione, cultura e identità”. Di mezzo c’è anche “una psiche distorta”, quella del padre, “che funge da detonatore”. Fa intendere che i problemi siano “la pressione sociale e la religione che offre a quella pressione nobili motivi”. Cita “la religione”, il cadavere “rivolto verso la mecca” e gli “sterili rituali che ognuno può usare per giustificare le più nefande pulsioni”. Ma non centra mai il punto di questa storia, e cioè una certa interpretazione radicale (e troppo diffusa) dell’islam. Lo era nel caso di Hina. Si è ripetuto decine di altre volte. Fino ad arrivare a Saman Abbas. Ricordate? È o non è un problema il fatto che nelle città italiane vi siano interi quartieri in cui si fatica a comprendere l’italiano? È o non è un dramma che migliaia di donne vivano nel Belpaese senza poter lavorare o uscire di casa? È o non è un errore se in fette del Paese si applica più o meno rigidamente la sharia?

Questo non significa “islam” uguale “omicidio”. Non è una equazione. E certo, anche in Italia ci sono sacche di violenza, odio, misoginia. I radicalismi esistono ovunque. Ma ricordando l’omicidio di Hina, girare attorno al problema non le fa onore. Hina è morta perché non voleva vivere sotto le rigide leggi che la sua famiglia le imponeva. Lo stesso vale per Saman. E per tante altre. Kedigia, una ragazza picchiata dal marito che è riuscita a scappare, una volta ci ha raccontato: “Non ho avuto alcun appoggio dalle mie amiche più intime perché per loro una donna che denuncia non va bene. Per loro, la donna deve stare zitta. Non conoscono niente dell’Italia: usano le tradizioni e le usanze dei loro Paesi, portano tutto con loro. E questo è sbagliato”. Lo volete capire?




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