“C’è qualche pecora? I lupi hanno fame”: il mercato delle schiave italiane gestito dai migranti

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Gli italiani coinvolti erano soprattutto donne che versavano in condizioni economiche svantaggiate, definite pecore. “C’è un signore che mi ha chiesto se c’è qualche pecora… Un signore qui a Messina, c’è un suo amico che vuole venire…”, si sente in una delle intercettazioni. E ancora: “Il lupo quando ha fame esce dalla tana…”. Le donne venivano convinte ad accettare dietro promessa di ricompensa, allettante per chi vive sul bordo del precipizio della povertà, e anche oltre.

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A Messina, il Gup Monica Marino, in udienza preliminare, ha disposto il rinvio a giudizio per 29 degli imputati coinvolti nella operazione ‘Zifaf’, scattata nel dicembre dello scorso anno ad opera della Guardia di Finanza, coordinata dalla Procura Distrettuale Antimafia; stralciate 11 posizioni.

L’inchiesta Zifaf aveva svelato che due organizzazione criminali – con base a Messina ma attive in buona parte dell’Italia e anche in Germania – erano attive nella organizzazione di falsi matrimoni tra italiani e stranieri (marocchini, algerini e tunisini), al fine di far conseguire la carta di soggiorno per motivi di famiglia, essenziale per l’ingresso e la permanenza in Italia, oppure per “sanare” la posizione degli extracomunitari che avevano subito decreti di espulsione dal territorio italiano.

Un anno fa, ordinanza di custodia cautelare fu spiccata nei confronti di 16 persone, 5 in carcere e 11 ai domiciliari, tra promotori e membri dei due gruppi criminali. Con arresti a Messina, Catania, Bergamo, Torino e Francoforte.

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Dalle indagini delle Fiamme gialle era emersa l’esistenza delle due organizzazioni, da tempo attive a Messina e con consolidate ramificazioni in Marocco, “governate” da due cittadini marocchini. Per l’accusa, erano proprio loro a occuparsi di organizzare i viaggi in Marocco degli sposi fittizi, di assistere i promessi sposi durante il disbrigo di tutte le pratiche burocratiche, fino al falso matrimonio. Seguivano tutto, dalle pubblicazioni alla cerimonia, fino alla fase finale quando ottenuto lo scopo si procedeva alla separazione e al divorzio. Ma i due cosiddetti wedding planner internazionali non operavano da soli, potendo contare su un’organizzazione ben strutturata, articolata su più livelli, con ruoli interscambiabili.

C’era un primo livello, costituito da fidati collaboratori, tutti marocchini. Erano quelli incaricati di reclutare i falsi sposi, e quando venivano contattati da altri marocchini in cerca di una sposa fittizia, si mettevano in moto, riferendosi alle donne italiane come “pecore” (“…c’è un signore che mi ha chiesto se c’è qualche pecora… un signore qui a Messina, c’è un suo amico che vuole venire…”); curavano poi l’adempimento delle procedure burocratiche relative alla preparazione del matrimonio e alle successive fasi necessarie per l’ottenimento della documentazione a favore dei cittadini extracomunitari. In questo contesto si inseriscono i riferimenti anche in territorio marocchino, che avevano il compito di coadiuvare l’attività di rilascio dei documenti necessari alla celebrazione dei matrimoni in Marocco, presso il consolato generale d’Italia a Casablanca.

I componenti del secondo livello erano 7 italiani, “affezionati” testimoni di nozze e gli interpreti mentre il terzo livello era rappresentato da una fitta rete di donne italiane, che vivevano in condizioni disagiate che venivano coinvolte prima per essere destinate a false nozze, per poi diventare volano per nuovi illeciti affari, come reclutatori di altri soggetti da indirizzare verso matrimoni falsi.

L’organizzazione pensava proprio a tutto, persino alle fedi matrimoniali, comperate per 1 euro da negozi cinesi. Ed è stato documentato il “tariffario”, di come tutto avesse uno specifico costo standardizzato: 10.000 euro circa corrisposti dallo straniero all’organizzazione, in contanti o attraverso i servizi di Money Transfer, materialmente eseguiti da soggetti apparentemente non coinvolti nella vicenda ma vicini ai membri del sodalizio criminale; tra i 2.000/3.000 euro allo sposo fittizio; somme inferiori per intermediari, testimoni di nozze ed interprete. Il tutto per un giro d’affari documentato nel corso delle indagini pari ad oltre 160.000 euro.

Per evitare certe scempiaggini basterebbe eliminare la possibilità di divenire ‘italiani’ per matrimonio.




2 pensieri su ““C’è qualche pecora? I lupi hanno fame”: il mercato delle schiave italiane gestito dai migranti”

  1. “Per evitare certe scempiaggini basterebbe eliminare la possibilità di divenire ‘italiani’ per matrimonio.”: meglio ancora, la donna italiana che sposa un uomo straniero deve perdere la sua per assumere quella del marito.

    1. Giusto, Werner. Un primo passo, credo più semplice da fare, potrebbe essere cominciare facendo almeno piazza pulita dell’istituto della doppia cittadinanza, che ritengo una sconcezza insopportabile. O di qua, o di là.

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