C’è però un’altra ombra nella biografia dell’ex magistrato, ben più spessa delle opinioni sull’inchiesta che ha scoperchiato Tangentopoli. Nel 1992 Ferdinando Imposimato, diventato nel frattempo senatore del Pds, si presentò sul palco del Maurizio Costanzo Show per perorare l’innocenza di Domenico Papalia, il capo dei capi della ‘ndrangheta trapiantata in Lombardia. Papalia era stato condannato definitivamente all’ergastolo per l’omicidio del boss Antonio D’Agostino, avvenuto nel 1977, ed era stato lo stesso giudice istruttore Imposimato a incriminarlo e a firmare l’ordine di arresto. Ora ne chiedeva la liberazione. “C’erano sufficienti indizi per rinviarlo a giudizio, ma non per la condanna”, tornò a dire pochi giorni dopo al Corriere della Sera. A restare allibiti furono questa volta altri magistrati milanesi, come ricostruiscono Gianni Barbacetto e Davide Milosa in “Le mani sulla città” (Chiarelettere). A cominciare da Alberto Nobili, che dalla neonata Direzione distrettuale antimafia stava chiudendo l’inchiesta Nord-Sud che avrebbe smantellato il clan di Papalia, basato a Buccinasco, le cui seconde generazioni sono coinvolte oggi in nuovi processi per mafia. Da magistrato, Imposimato aveva seguito importanti inchieste su terrorismo e mafia, e aveva sofferto sulla propria pelle la violenza mafiosa quando, nel 1983, la camorra aveva assassinato suo fratello Franco. La campagna a favore del boss toccherà il culmine con un’apparizione su Raidue insieme a una figlia di Papalia e ad Antonio Delfino, fratello giornalista del generale dei carabinieri Francesco. I Delfino sono originari di Platì, il paese aspromontano da cui provengono anche i Papalia, clan di grande spessore e accreditato di contatti ad alto livello anche nei servizi segreti. Scriverà in proposito il giudice Guido Piffer negli atti dell’inchiesta Nord-Sud: “Il senatore Imposimato è stato utilizzato, è il caso di dirlo, da scaltri manovratori, senza contare il suo preoccupante, se vera l’ipotesi, non potersi tirare indietro da pressioni o minacce provenienti da ambienti non certo di frati trappisti”. Imposimato respingerà con sdegno l’ipotesi di essere stato manovrato.
La storia è vera. Ma è, nello stile dei Fatti Quotidiani, masticata ad arte per sputacchiare fango sul nemico politico.
Imposimato, dopo avere condannato Papalia, si rese conto (sua opinione), di avere sbagliato.
Facciamo parlare gli articoli dell’epoca:
Un ergastolano da 17 anni in carcere per omicidio, e’ quasi certamente innocente
Lo ha affermato ieri l’ onorevole Ferdinando Imposimato (Pds), che quando era giudice istruttore lo rinvio’ a giudizio per l’ omicidio del boss della ‘ ndrangheta Salvatore D’ Agostino, avvenuto il 2 novembre 1976 davanti a un ristorante dei Parioli dopo una cena tra big della mala calabrese. “C’ erano sufficienti indizi per il rinvio a giudizio . ha detto Imposimato . ma non per la condanna, e all’ epoca mi stupii che durante il dibattimento non fossero stati aggiunti ulteriori elementi di prova e nei tre gradi di giudizio Papalia fosse stato condannato all’ ergastolo”. Durante i festeggiamenti dello scorso Capodanno, il figlio di Papalia, Pasquale, 19 anni, e’ morto a causa di una pallottola vagante e il padre ha autorizzato la donazione di cuore, fegato, cornea e rene del figlio. “Ho sentito il padre . ha detto Imposimato . straziato dalla perdita del figlio. E giunto il momento di fare qualcosa per consentire a Papalia di uscire dal carcere perche’ e’ stato condannato soltanto in base a degli indizi”.
Accusato poi delle stesse accuse tirate fuori una ventina di anni dopo dai fatti quotidiani:
L’ ex giudice Imposimato: “Non sono stato usato da scaltri manovratori”
ROMA . Il tono della voce e’ piuttosto incerto, la camicia sbottonata ed il nodo della cravatta slabbrato, la barba di un giorno, lo sguardo e’ di chi ha passato la notte insonne. E chi mai vorrebbe sognare un incubo lungo 35 pagine? Ferdinando Imposimato . un presente da deputato del Pds, un passato da magistrato . giura di non avere ancora letto l’ ordinanza di rinvio a giudizio nella quale compare il suo nome. Nessun reato gli viene contestato, e’ vero. Ma non c’ e’ accusa peggiore per un uomo di Legge, che passare per un giudice “utilizzato da scaltri manovratori”: un togato “incapace” di liberarsi da “pressioni o minacce”, vittima di “ambienti” dove s’ incrociano interessi della criminalita’ organizzata, del terrorismo e dei soliti servizi segreti piu’ o meno deviati. “Sono angosciato ed amareggiato . attacca Imposimato ., spero non si tratti del solito pentito che s’ inventa qualcosa… ma prima voglio leggere, voglio capire”. Dov’ e’ finita la baldanza con la quale un anno fa accusava la magistratura di essere coinvolta in Tangentopoli? E dov’ e’ finito il tono fiero del parlamentare del Pds che invitava Occhetto a dire tutto quello che sapeva sul coinvolgimento della Quercia nell’ inchiesta Mani pulite e a farsi subito dopo da parte? Bastano 35 pagine per screditare una carriera. “Chissa’ . prova a rovistare nella memoria il deputato ., forse c’ e’ qualcuno che vuole vendicarsi. Per che cosa? Non so. Ma non ho nulla da temere. Certo, questa storia mi ha colpito, pero’ in coscienza mi sento sereno e sono convinto che la verita’ verra’ fuori”. La storia. La verita’ . Da giudice istruttore, Imposimato si occupo’ dell’ omicidio del calabrese Antonio D’ Agostino (indicato come mandante dell’ assassinio del giudice Occorsio) e dell’ uccisione di Moro. Nelle pagine firmate dal Gip milanese Guido Piffer, le due inchieste s’ incastrano torbidamente. Imposimato ricorda: “L’ omicidio del D’ Agostino risale al ‘ 76. Venne ucciso appena fuori un ristorante di via Archimede a Roma. Per quel delitto rinviai a giudizio Antonio Trichilo . che a mio avviso ebbe nella vicenda un ruolo centrale . e Domenico Papalia, accusato di concorso morale. Per mia grande sorpresa, la Corte d’ Assise rovescio’ quella ricostruzione: Trichilo fu assolto e Papalia condannato all’ ergastolo”. La cosa che ha insospettito la magistratura milanese e’ che “dopo 13 anni”, Imposimato avvio’ “una campagna” per la concessione della grazia a Papalia. “Il mio cambiamento di posizione sulla vicenda . dice il deputato . e’ dovuto ad una rilettura degli atti”. I magistrati di Milano ritengono sia vittima di pressioni. “Non ho subito pressioni di alcun genere e resto convinto di essere nel giusto”. Eppure il giudice D’ Ambrosio informo’ Imposimato di nuovi riscontri a carico del Papalia: “E’ vero, da Milano ricevetti la telefonata di Gerardo…”. Ma allora perche’ insistette? “Sono convinto che quell’ imputato fosse innocente”. Rimangono quei sospetti sulle “pressioni esterne”. Replica Imposimato: “Non raccolgo insinuazioni fatte sul mio conto, e che sono immotivate e gratuite. Forse qualcuno ha voglia di tirarmi in mezzo, ma non ho la piu’ pallida idea di chi possa essere. Mi riserbo di replicare quando avro’ letto le carte processuali”. In quelle carte si fa riferimento al caso Moro. Cosa c’ entra il delitto D’ Agostino e la “sponsorizzazione” di Papalia da parte di Imposimato con il caso Moro? In quelle 35 pagine da incubo, il Gip si limita a incolonnare alcuni fatti: Papalia aveva “legami” con Antonio Nirta (altro mafioso di spicco) e insieme avevano contatti con i Servizi; Imposimato e’ stato giudice istruttore sia per il sequestro Moro sia per l’ omicidio D’ Agostino; nell’ azione di via Fani si parlo’ di “sospette presenze” tra i brigatisti, ovvero della possibilita’ che personaggi della ‘ ndrangheta al soldo dei Servizi deviati avessero partecipato al sequestro. “Chi vuole accreditare la tesi secondo la quale io sarei rimasto vittima di pressioni per l’ inchiesta sul caso Moro, sostiene un’ infame bugia”, replica sdegnato l’ ex giudice istruttore. Imposimato ritiene “possibile” che un’ altra persona . oltre al gruppo di fuoco delle Br . fosse presente in via Fani. E dice: “Dagli accertamenti che feci allora, risulto’ la presenza di un uomo sulla moto Honda: quest’ uomo avrebbe partecipato all’ agguato. Dubito pero’ si trattasse di un esponente della mafia”.
E la tesi di Imposimato non risultò campata in aria, tanto che quasi un anno dopo:
‘ RIAPRITE IL CASO PAPALIA’
LA GIUSTIZIA ci ripensa, dà ragione ai dubbi di chi – sedici anni dopo l’ omicidio di un malavitoso “eccellente” – sostiene che per quel delitto oggi è in carcere un innocente. Domenico Papalìa, il primogenito della famiglia di Platì indicata come uno dei clan più potenti della mafia calabrese e delle sue colonie lombarde, ha ottenuto la revisione del processo che nel maggio 1983 si concluse con la sua condanna all’ ergastolo per l’ uccisione di Antonio D’ Agostino, anche lui calabrese di Platì, fulminato da un killer la sera del 2 novembre 1976, a Roma, mentre usciva dal ristorante “American Palace” di via Archimede. Ma la decisione della quarta sezione penale della Corte d’ appello di Roma – che ieri ha deciso la riapertura del processo, accogliendo il ricorso presentato dai difensori di Papalìa – era tutt’ altro che scontata. Perché il caso Papalìa ormai non è più la semplice storia di un errore giudiziario, vero o presunto, in una sanguinosa storia di malavita. Intorno alla sorte dell’ ergastolano si sta combattendo una battaglia anche all’ interno dei poteri dello Stato, una battaglia che vede in campo politici, magistrati, giornalisti. Una battaglia il cui principale protagonista, il senatore del Pds Ferdinando Imposimato – che quando faceva il giudice fece arrestare e condannare Papalìa, e ora sostiene la sua innocenza – viene ora accusato da altri giudici di essere strumento inconsapevole, se non addirittura ricattato, del clan Papalìa. Ma il primo round, quello combattuto ieri a Roma, dà ragione a Imposimato: ci sono sufficienti motivi perché il caso venga riaperto. Il 25 gennaio, davanti alla Corte d’ appello, verranno chiamati i testimoni che dovrebbero scagionare Domenico Papalìa. Ci saranno i familiari del morto, Antonio D’ Agostino, che spiegheranno perché sono sicuri che il condannato non possa essere l’ esecutore di quel delitto. Ci sarà il perito del processo di primo grado, che spiegherà come le nuove tecniche di analisi smentiscano la perizia che portò alla condanna di Papalìa. Ci sarà il senatore Imposimato, chiamato a raccontare le tappe del suo “pentimento”. Ma non ci saranno, almeno secondo quanto è stato deciso finora, i testimoni dell’ altra parte, i nuovi “pentiti” che proprio in queste settimane – mentre il comitato Papalìa combatteva la sua battaglia – hanno spiegato ai giudici di Milano che la condanna all’ ergastolo del boss di Platì non fu affatto un errore giudiziario. E che proprio Domenico Papalìa decise ed organizzò l’ esecuzione di via Archimede. E’ il lato meno chiaro di questa vicenda. A lungo i giudici milanesi hanno messo sull’ avviso l’ ex collega Imposimato, invitandolo a desistere dalla sua campagna: “Ferdinando, non ti preoccupare, facesti una bella indagine, era tutto giusto”. Imposimato ha continuato sulla sua strada, mentre Saverio Morabito – anche lui calabrese di Platì, oggi collaboratore di giustizia – metteva a verbale le sue accuse contro Papalìa. “Morabito riferisce cose sentite dire”, dicevano i difensori dell’ ergastolano. Ma da tre settimane la situazione è cambiata, sull’ onda del pentimento di Morabito ha scelto di collaborare con i giudici anche un uomo che quella sera era sul luogo del delitto. Si chiama Mario Inzaghi, e ha detto ai giudici di avere ricevuto proprio da Papalìa l’ ordine di portare in via Archimede l’ auto per la fuga del killer. E, dopo l’ esecuzione, “arrivò il Papalìa Domenico che confermò che l’ operazione era andata a buon fine”. Quanto alla famiglia del morto, che oggi difende il presunto assassino, è Saverio Morabito a spiegare ai giudici che i parenti di D’ Agostino furono convinti dell’ innocenza del clan rivale durante una riunione destinata – se non si fossero lasciati convincere – a concludersi con il loro sterminio. I giudici milanesi si domandano perché, di fronte a conferme così sostanziose, l’ innocenza di Papalìa continui a trovare autorevoli sostenitori. Nei loro provvedimenti hanno riportato intercettazioni telefoniche che fanno sospettare la presenza di “contatti” del clan Papalìa anche all’ interno del ministero di Grazia e giustizia. Hanno scritto chiaramente di non credere che il senatore Imposimato sia spinto solo dalla buona fede. E hanno sottolineato la presenza, tra i firmatari del “comitato Papalìa”, anche del giornalista di Platì Antonio Delfino, fratello del generale dei carabinieri Francesco Delfino che in seguito alle rivelazioni di Morabito è stato raggiunto da un avviso di garanzia per favoreggiamento. Il fratello giornalista del generale è stato accusato dal “pentito” di essere il mandate di un gravissimo delitto, l’ uccisione del sindaco di Platì, assassinato dal picciotto di una cosca locale. E la sensazione dei giudici milanesi è che anche il capitolo della revisione del processo a Domenico Papalìa sia, in qualche modo per ora inspiegabile, legata agli scenari evocati da queste rivelazioni.
Dire che un mafioso non ha commesso un omicidio – opinione di Imposimato – non significa lo si ritenga una brava persona a 360 gradi. Semplicemente, si pensa che quell’omicidio lo abbia commesso qualcun altro.