Tra le tante vittime della crisi c’è anche l’edilizia. Un crollo verticale, secondo gli studi di Confartigianato.
Nell’ultimo anno il settore delle costruzioni ha perso 122.000 addetti, un calo del 6,7%. Hanno pagato il conto della recessione econmica i lavoratori, ma anche le aziende. Il saldo, infatti, è negativo anche per le imprese: il 2012 si è chiuso con la perdita di 61.844 aziende, pari ad una diminuzione dell’1,88%. Non è andata meglio per le imprese artigiane, che rappresentano la fetta più consistente delle costruzioni: 571.336 aziende, vale a dire il 63,9% del totale. Nel 2012 hanno chiuso 54.832 costruttori artigiani, con un calo dell’1,96%.
E’ il caso di dire che non tutti mali vengono per nuocere. Si, lo so, ne vanno di mezzo anche lavoratori italiani. Ma il nostro ragionamento deve essere globale. E globalmente, più l’edilizia è in crisi, meglio è.
Per due motivi. E’ un’industria che dà lavoro principalmente a immigrati – romeni soprattutto – e quindi pensare di risolvere la crisi occupazionale italiana favorendo questo settore, è come tentare di gonfiare un palloncino bucato soffiandoci dentro. Da dementi.
C’è poi il motivo ambientale. L’Italia è stata stuprata dalla cementificazione. L’identità è anche difesa del territorio, non idolatria dell’ambiente in quanto entità astratta – come nel fanatismo verde – ma cura e amore per il luogo natio. E cura e amore, significa proteggere l’integrità naturale dell’ambiente che ci circonda.
L’Italia, secondo dati Ispra, e’ passata da poco piu’ di 8.000 kmq di consumo di suolo del 1956 ad oltre 20.500 kmq nel 2010.
“E’ solo attraverso la riduzione del consumo di suolo e il riutilizzo e la riqualificazione del gia’ costruito – riporta l’Atlante del consumo di suolo a cura di Paola Bonora – che potremo salvaguardare i nostri territori assieme patrimonio accumulato e in questo modo contrastare sia i rischi della crisi economica che quelli dell’emergenza ambientale. Lo stesso rilancio del settore industriale dell’edilizia, oggi in profonda crisi, e’ legato alla consapevolezza, da acquisire in modo definitivo, che occorre abbandonare il modello dell’espansione continua delle superfici edificate per concentrarsi sulla rigenerazione urbana, sul riuso, sull’efficienza energetica e la sostenibilita’ ambientale delle citta’”
Stiamo cannibalizzando l’ambiente nel quale viviamo. Credendo che sia ‘infinito’. Non lo è. Il nostro è poi un territorio delicato, pieno di particolarità da curare e proteggere. Da proteggere soprattutto dalla fame dei palazzinari: veri sciacalli in cerca di un cadavere da spoliare.
Il segreto è riportare in vita i centri storici sloggiando gli immigrati e dando vita ad un rinascimento urbanistico. Far partire un progetto di riqualificazione e ristrutturazione delle periferie ex-industriali. Il territorio è ‘finito’: deve essere riutilizzato quello che è già stato cementificato.
Inutile dire che la delicatezza del nostro territorio, fa a pugni con l’immigrazione di massa. Un ambientalista degno di questo nome, non può che essere contrario all’immigrazione. Perché ‘più immigrati’ significa anche ‘più consumo del territorio’.
E non è quindi strano, vedere che i giornali siano fanaticamente schierati per l’immigrazione, visto che molti – tipo Messaggero – sono di proprietà di costruttori senza scrupoli i cui interessi sono in contrasto con gli interessi generali. Per loro più immigrati significa due cose: più casermone da costruire con più territorio da stuprare; e più braccia low-cost per farlo.
Se ami la tua terra e ti definisci ambientalista, o sei con noi, o menti a te stesso.