Kafala, la schiavitù esiste ancora nei paesi islamici

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Una nuova forma di schiavitù moderna. E, in Medio Oriente, legalizzata. Si chiama kafala, la traduzione in arabo di fideiussione. Un istituto di diritto islamico che dovrebbe dare garanzie alle lavoratrici, soprattutto domestiche. Ma che si è trasformato in una forma di abuso con la complicità dello Stato. In Libano riguarda 250mila donne. Il 65% delle lavoratrici hanno avuto esperienza di lavoro forzato e schiavitù. Sono spesso violentate, messe incinte, abusate, picchiate, separate dai loro bambini, sfruttate, isolate, mal pagate e quando non servono più, rispedite nel Paese di origine da parte dei loro datori di lavoro. Tra gennaio 2016 e aprile 2017, 138 lavoratori migranti sono stati rimpatriati dopo la loro morte.

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Oltre al Libano, la kafala è pratica comune in Bahrein, Iraq, Giordania, Kuwait, Oman, Arabia Saudita e Emirati. Il Libano è meta di tante lavoratrici provenienti soprattutto da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine. Il sistema richiede che questi lavoratori dispongano di uno “sponsor” nazionale. Di solito “lo sponsor” è il loro datore di lavoro, che anticipa le spese per il permesso di lavoro ed è anche responsabile del visto e dello status giuridico. Ha quindi un enorme potere su di loro.

Un paio di migliaia di euro possono essere sufficienti per comprare in una moschea una donna siriana, comprese le bambine, che vivono nei campi profughi libanesi.

Le donne sono in vendita come “siriane pronte per il matrimonio” su Facebook.

Questo fenomeno non è nuovo. L’anno scorso, i rapporti hanno sostenuto che le donne siriane che vivono nei campi profughi in Giordania, Turchia e Iraq erano state vendute a uomini provenienti da paesi arabi, in particolare dalla zona del Golfo. I soliti sceicchi.

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Gruppi per i diritti hanno anche denunciato casi di violenza e molestie sessuali in cui le vittime avevano 12 e 13 anni di età.

La pagina di Facebook che pubblicizzava la profughe siriani in vendita come mogli è stata chiusa solo ieri, ma aveva migliaia di seguaci tra il 17-21 maggio compresi potenziali clienti interessati alle donne ritratte seminude.

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I messaggi mostravano le donne “in cerca di un marito” con un breve profilo sulla loro castità e la loro capacità nel lavoro domestico.

Ma per ottenere una migliore comprensione dei “beni” in vendita, gli uomini dovevano inviare una e-mail ad avviare negoziati. Secondo Arab ONG Kafa, che ha più volte denunciato il fenomeno, per lo più i clienti provengono da Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, ma anche da Tunisia, Marocco, Egitto, Algeria, Yemen e Bahrain.

“Si può sposare legalmente o di nascosto”, pubblicizzava la pagina di Facebook.

Secondo gli attivisti siriani “I rifugiati vivono come schiavi” in Giordania, dove centinaia di migliaia di profughi siriani vivono in campi profughi sovraffollati nel nord e dai principali centri urbani, giornali locali pubblicano molti annunci di prostituzione di donne siriane.

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Il fenomeno è diffuso anche in Libano, dove non ci sono campi profughi ufficiali, ma dove oltre un milione di siriani sono fuggiti. Non ci sono gruppi criminali che stanno dietro questo trend di crescita: spesso le famiglie delle vittime sono coinvolte o, talvolta, sono “incoraggiate” dalle ONG islamiche locali che distribuiscono aiuti umanitari nei campi, che hanno accesso ai casi più disperati.

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Secondo quanto riferito da Kurdistan iracheno e Giordania, le donne sono vendute in moschee dopo le trattative tra genitori e aspiranti mariti. I mediatori, spesso donne, guadagnano almeno 50 € per organizzare l’incontro. E se le due parti raggingono un accordo, il prezzo può essere alto fino a 3.000 €, ovvero circa il 10% della transazione.

In realtà, questi matrimoni sono per lo più solo un mezzo per avere rapporti sessuali con una vergine – i famosi matrimoni a tempo islamici per non chiamarla ‘prostituzione’ – e successivamente c’è un divorzio lampo in pochi giorni che avviene “legalmente”. Le vittime non possono quindi denunciare i loro “mariti” e si trovano a dovere poi sopportare un’ulteriore umiliazione sociale.

Sembra che anche gli scafisti della Marina vogliano una fetta di questo mercato. Serve a questo, l’operazione Mare Nostrum? Ad importare ‘carne da esposizione’?