Tunisia, tra gli ex detenuti in fuga verso l’Italia: “Il nostro governo ci lascia passare”

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L’Italia è vicinissima, l’Italia è in saldo: 400 euro per un viaggio di sola andata. La barca di Hamed ne porta trenta alla volta. È di nuovo pronta. Ognuno avrà il suo giubbotto di salvataggio. È l’ottavo carico di ragazzi per questo pescatore trafficante obeso, che dopo aver mandato i suoi scagnozzi a controllare anche nel bagagliaio della nostra auto e pattuito tutte le sue regole di riservatezza, infine si concede. «In questo momento i viaggi costano poco perché la Guardia costiera ci fa passare», dice sotto un cappellino da baseball dei New York Yankees. «È un gioco politico. Lo sanno tutti. Noi facciamo la nostra parte». Hamed tiene in faccia un paio di occhiali da sole assurdi, con inserti dorati che luccicano nel buio. «Sono loro che decidono se il mare è aperto o è chiuso. Adesso è aperto. E noi andiamo. Ogni dieci ragazzi che carico, due sono appena usciti di prigione».

Così scriveva La Stampa nell’ottobre dello scorso anno, in piena ondata di ex galeotti tunisini.

Il 23 luglio in Tunisia sono stati liberati 1645 carcerati, altri 1027 il 13 ottobre. Sono usciti dalle carceri di Mournaguia, Borj Amri e Siliana, troppo affollate per garantire anche solo condizioni di vita minimamente accettabili. Il presidente della repubblica tunisina Beji Caid Essebsi, un ex avvocato, concede indulti ogni anno.

«Porto ragazzi giovanissimi, anche un quindicenne. Ho portato diverse giovani donne e un uomo di 45 anni che voleva ricongiungersi alla sua famiglia. La maggior parte, però, sono ventenni. Quelli che escono dal carcere sono quasi tutti consumatori di droga. Nessuno li prende più a lavorare, per questo se ne vogliono andare».

In Italia.

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La Tunisia è un Paese sull’orlo della disperazione. La disoccupazione giovanile è al 40 per cento, quella dei laureati al 31%. Ogni anno 100 mila ragazzi escono dal percorso scolastico e si perdono. Lo stipendio di un poliziotto corrisponde a 327 euro. La corruzione è endemica. Pochi giorni fa a Sfax, 200 chilometri a sud, sono stati arrestati due agenti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: prendevano mazzette per lasciare passare i migranti.

Li chiamano «haragas». Quelli che bruciano. Quelli che non sopportano più di aspettare. Quelli che devono partire a ogni costo. «Il crollo del dinaro, alla fine di luglio, è una delle cause di tutte queste partenze», dice Valentin Bonnefoy del Forum tunisino per i diritti economici e sociali. «Un’altra è la delusione patita dai movimenti nati sul territorio, le aspettative frustrate di un’intera generazione. Nelle regioni interne la povertà è assoluta. Non c’è alcuna prospettiva. E poi dall’Italia rimbalzano i racconti di quelli che ce l’hanno fatta, che subito vengono inviati sui social network».

L’industria criminale dei trafficanti si è immediatamente rimessa al lavoro. Durante la Primavera Araba, nel 2011, erano stati 30 mila i tunisini sbarcati in Italia. Oggi, secondo le stime ufficiali, 3 mila solo fra settembre e ottobre, ma in realtà sarebbero già almeno 6 mila quelli che sono riusciti a passare. Non sembra un deterrente sufficiente nemmeno l’inasprimento delle pene deciso dal governo, di cui lo scafista con il cappellino dei New York Yankees è perfettamente consapevole. «Rischio fino a 20 anni di carcere. Prima me la cavavo al massimo con 7. Ma il clima è ancora favorevole. Le richieste sono continue. E il governo non ha mezzi sufficienti per controllare tutto il mare».

Su Facebook c’è una pagina che si chiama «Haraka Jamaia» con 2100 iscritti, il cui titolo significa: «Immigrazione illegale collettiva». L’obiettivo è cercare di organizzare partenze simultanee da diversi punti della costa tunisina, in modo da rendere impossibile il lavoro delle motovedette della guardia costiera. Sempre su Facebook c’è il video girato da un migrante in cui, in mezzo al mare, riceve il via libera da una motovedetta.

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Gli haragas partono alle 3 del mattino e navigano al buio, almeno fino alle acque internazionali. Quasi invisibili ai radar.

E’ tempo di fermarli. Costi quello che costi. E se affondano, se la sono cercata.