Soumahoro, l’avvocato: “Caso montato perché è negro” – VIDEO

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Soumahoro, l’avv. Iuri Maria Prado: “Caso montato perché è negro”. Il fatto che, come dice l’avvocato, sia ‘negro’, è chiaramente una aggravante: perché lui ha basato tutta la propria propaganda sul fatto di esserlo. Ha cianciato di sfruttati e apartheid mentre si comprava una villa da mezzo milione di tre piani coi soldi che la moglie aveva fatto sfruttando il business dell’accoglienza.

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LUI è in Parlamento, nonostante il voto degli elettori, proprio perché ‘negro’. Mai l’avrebbero candidato, altrimenti.

IL fatto che per noi sia ridicolo che un africano possa rappresentare italiani, come un italiano possa rappresentare africani, è poi un altro discorso: per noi non dovrebbe essere in Parlamento anche se fosse una vergine.




5 pensieri su “Soumahoro, l’avvocato: “Caso montato perché è negro” – VIDEO”

  1. Come l’ha definito “negro”? Rassista!🤣🤣🤣

    Come giustamente sottolinea l’articolo, la vicenda Soumahoro dimostra come i ne(g)ri utilizzano la loro appartenenza razziale per fare “chiagne e fotte” ai danni di noi bianchi. Ed è semplicemente vergognoso, perché questo sottolinea l’involuzione generale sul piano spirituale e psicologico di noi bianchi, che ci facciamo troppe masturbazioni mentali in merito a dei “sensi di colpa” per il colonialismo.

    1. Rimorsi causati dall’universalismo, maledettissimo sia, dall’abominevole zavorra dell’universalista, che ci ha scaraventati nell’abisso.
      I patrioti devono scolpirsi nella memoria che NON è delitto nuocere agli stranieri.

      «Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero; dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama. Lo vediamo anche presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell’antico patriotismo.
      Ma quest’odio accadeva massimamente nelle nazioni libere. Una nazione serva al di dentro non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perché l’individuo non fa parte della nazione se non materialmente. L’opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt’uno colla patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa come uno per uno.
      Con queste osservazioni, spiegata la gran differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri e di operare verso le altre nazioni paragonata colla maniera moderna. Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l’opinione, l’amore, il favore degli antichi. E parlo degli antichi nelle nazioni più cólte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, cólti, ed anche illuminati e filosofi. Anzi la filosofia di allora, che dava molto più nel segno della presente, insegnava e inculcava l’odio nazionale e individuale dello straniero come di prima necessità alla conservazione dello stato, della indipendenza, e della grandezza della patria. Lo straniero non era considerato come proprio simile. La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della giustizia, dell’onesto, delle virtù, dell’onore, della gloria stessa, e dell’ambizione, delle leggi ec., tutto era rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una città. Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte e per certi rapporti necessari e dove il danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.
      La nazione ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell’interno, e rispetto a’ suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacché si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine divino, e così cento altre guerre, spesso nell’apparenza ingiuste, co’ forestieri. Ed anche oggidì gli ebrei conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l’ingannare o far male comunque all’esterno, che chiamano, e specialmente il cristiano, Goi (גוי) ossia gentile e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro (vedi il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però si deve intendere, chiamano oggi i cristiani גוים Gojim), riputando peccato solamente il far male a’ loro nazionali. […] E quanto ai romani, vedi in questo particolare la fine del capo VI di Montesquieu, Grandeur etc. Oltre che i romani, accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e compatrioti; ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com’è noto e come ho detto in altro pensiero, p. 457.
      Tornando al proposito, Platone nella Repubblica, lib. V (vedilo) dice: i Greci non distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le campagne, né bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai barbari. E le orazioni d’Isocrate, tutte piene di misericordia verso i mali de’ greci, sono spietate verso i barbari o persiani, ed esortano continuamente la nazione e Filippo a sterminarli. […] questa opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il carattere costante di tutti gli antichi greci e romani, e massime de’ piú cittadini e assolutamente de’ piú grandi e famosi; nominatamente poi degli scrittori, anche i piú misericordiosi, umani e civili.
      […] la filantropia, o amore universale e della umanità, non fu proprio mai né dell’uomo né de’ grandi uomini e non si nominò se non dopo che, parte a causa del cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l’amor di patria e sottentrato il sogno dell’amore universale, (ch’è la teoria del non far bene a nessuno), l’uomo non amò veruno fuorché se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto piú i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea naturalmente essere, com’è oggi, meno odioso, perché si oppone meno a’ suoi interessi e perch’egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i lontani, quanto i vicini.»

      Giacomo Leopardi, Zibaldone, 880-4.

      «L’amore universale, anche degl’inimici, che noi stimiamo legge naturale (ed è infatti la base della nostra morale, siccome della legge evangelica in quanto spetta a’ doveri dell’uomo verso l’uomo, ch’è quanto dire a’ doveri di questo mondo) non solo non era noto agli antichi, ma contrario alle loro opinioni, come pure di tutti i popoli non inciviliti, o mezzo inciviliti. Ma noi avvezzi a considerarlo come dovere sin da fanciulli, a causa della civilizzazione e della religione che ci alleva in questo parere sin dalla prima infanzia, e prima ancora dell’uso di ragione, lo consideriamo come innato. Così quello che deriva dall’assuefazione e dall’insegnamento, ci sembra congenito, spontaneo, ec. Questa non era la base di nessuna delle antiche legislazioni, di nessun’altra legislazione moderna, se non fra’ popoli inciviliti. Gesú Cristo diceva agli stessi Ebrei, che dava loro un precetto nuovo ec. Lo spirito della legge Giudaica non solo non conteneva l’amore, ma l’odio verso chiunque non era Giudeo. Il Gentile, cioè lo straniero, era nemico di quella nazione; essa non aveva neppure né l’obbligo né il consiglio di tirar gli stranieri alla propria religione, d’illuminarli ec. ec. Il solo obbligo, era di respingerli quando fossero assaliti, di attaccarli pur bene spesso, di non aver seco loro nessun commercio. Il precetto diliges proximum tuum sicut te ipsum, s’intendeva non già i tuoi simili, ma i tuoi connazionali. Tutti i doveri sociali degli Ebrei si restringevano nella loro nazione
      Ibidem, 1710.

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