Bengalese decapita un uomo a Torino, avvocato: “E’ la sua cultura”

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Ci sono altri particolari che dimostrano la qualità degli immigrati che stiamo importando in Italia. Individui che credono a riti magici e decapitazioni rituali. E che fanno compravendita di donne.

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Si trattò di un omicidio premeditato, quello commesso lo scorso 10 giugno da Mostafa Mohamed, cuoco bengalese 26enne, condannato ieri all’ergastolo dalla Corte d’Assise presieduta da Alessandra Salvadori. L’imputato, difeso dall’avvocata Nadia Di Brita, dovrà rispondere anche di vilipendio di cadavere: i giudici hanno escluso l’aggravante della crudeltà e ordinato la trasmissione degli atti relativamente al taglio della testa della vittima che l’imputato effettuò, quando il connazionale e coetaneo Mohamed Ibrahim era già morto strangolato, nell’appartamento di corso Francia 95 in cui viveva.

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La Corte d’Assise ha accolto la richiesta dei pm Valentina Sellaroli e Marco Sanini, che hanno coordinato l’inchiesta della squadra mobile, e che ieri hanno chiesto per l’imputato il massimo della pena. «Siamo in presenza di un delitto efferato – ha dichiarato Sanini – connotato da speciale crudeltà ed indice di assenza di qualsivoglia considerazione del valore essenziale che la nostra cultura etica e sociale, prima ancora che il nostro ordinamento giuridico, attribuisce alla vita umana».

«Un delitto – ha aggiunto il pm – ricostruito con dovizia di particolari sin dalle prime fasi di indagine, grazie alle quali il responsabile è stato, entro le 36 ore successive, individuato e assicurato alla giustizia». L’avvocata Di Brita ha chiesto l’assoluzione sostenendo che Mohamed avesse agito per legittima difesa durante una lite. «Quella sera – aveva spiegato l’imputato durante un interrogatorio- abbiamo discusso per Charmin, una ragazza bengalese. Io l’amavo e lei amava me. Ho dato molti soldi alla sua famiglia. Ma poi l’hanno venduta in sposa a un altro uomo. Ibrahim mi ha accusato di continuare a sentirla per telefono e mi ha aggredito». La tesi per cui l’imputato sarebbe stato provocato è stata respinta dai pm, che hanno sostenuto: «Fu un omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà. L’imputato aveva un coltello nello zaino e ha usato dei guanti per il delitto, indice della volontà di cancellare le tracce». Il movente per la procura è chiaro: un debito non saldato dalla vittima di 4mila euro. «Le attenuanti non sono concedibili», ha precisato la pm Sellaroli che, contestando quanto affermato dall’avvocata Di Brita che aveva parlato di “lacune nelle indagini”, ha ribadito: «Sono state svolte con rigore dal pubblico ministero, che è stato bene attento a trarre conclusioni sulla base di elementi provati».

Nella casa del delitto erano rimasti, sul tavolo, tre piatti: su uno c’era una “m” disegnata col sangue. La traccia non è dell’imputato. «Potrebbe trattarsi – aveva detto la difesa – di un rito magico fatto dalla vittima con i suoi amici, per punire il mio assistito, visto che continuava a sentire Charmin». Comunque sia andata, l’imputato è reo confesso: ad uccidere il connazionale fu lui, non ci sono dubbi.

«Ho puntato sulla legittima difesa, anche se c’è la decapitazione – ha detto dopo la sentenza l’avvocata di Mohamed – perché il taglio della testa è un’azione comune per chi crede nei riti tribali bengalesi». Per la Corte d’Assise invece si tratta di un omicidio premeditato e il taglio della testa costituisce un reato a sé: il vilipendio di cadavere.

E’ una ‘pratica comune’. E noi li facciamo entrare.