Imprese cinesi “apri e chiudi”, dichiarano reddito zero e si prendono aiuti statali

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La Cina e i suoi ‘imprenditori’ sono una rovina per il nostro tessuto produttivo. Non solo importano in Italia il modello schiavista, mettendo chi rispetta le regole fuorigioco e danneggiano i lavoratori, ma parassita anche i soldi dei contribuenti attraverso aiuti statali. Per questo urge un DPCM etnico che riservi ristori e aiuti statali alle sole imprese italiane. Che non significa che agiscono in Italia, ma che sono di proprietà e hanno dipendenti italiani. Non è razzismo, è legittima difesa.

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Un fiorire di 15mila partite Iva avviate in dodici anni, aperte e chiuse nel giro di pochi mesi per coprire un debito fiscale di 900 milioni di euro e 260 milioni di contributi mai versati all’Inps. Debito di cui lo Stato ha recuperato poco più del 3%, mentre almeno 570 milioni di euro sono stati esportati in Oriente. Il tutto condito da una impenetrabile rete di riciclaggio fatta di fatture false, società cartiere, sfruttamento del lavoro. È l’istantanea che ritrae il sistema di infedeltà fiscale dell’imprenditoria cinese in Veneto, su cui la Guardia di finanza è impegnata ad ampio raggio. Tra le varie reti imprenditoriali portate avanti da cittadini stranieri in regione, quella cinese è infatti la più florida, come dimostra la recente operazione che ha visto l’altro ieri il comando provinciale trevigiano delle Fiamme gialle portare a galla un giro di riciclaggio di denaro sporco tra alcune aziende tessili della Castellana e un ristorante dell’Alta Padovana.

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I NUMERI Nelle varie zone del Veneto l’imprenditoria cinese va a inserirsi in settori specifici. Se ad esempio a Venezia i negozi di souvenir dell’isola e i locali sono tra le attività che vedono crescere costantemente le gestioni orientali, nella Marca le più alte concentrazioni si trovano nel tessile, nella ristorazione e nei grandi magazzini di vendita al dettaglio. «Abbiamo davanti una realtà complessa e ramificata, oltre che estremamente difficile da penetrare, in cui anche solo la lingua diventa un passaggio estremamente ostico per le indagini sottolinea il comandante della Guardia di finanza di Treviso, colonnello Francesco De Giacomo . A fronte di attività che operano correttamente, vi è un pullulare di altre che agiscono in modo parassita. Il problema è infatti duplice: da un lato vi sono imprese che creano guadagno in modo illecito e che fanno defluire fuori dall’Italia somme ingentissime; dall’altro la maggior parte di questi imprenditori dichiara redditi sotto la soglia della povertà, beneficiando degli aiuti e agevolazioni messi a disposizione dallo Stato». Tra il 2008 e il 2012 in Veneto si sono registrati 45mila immigrati cinesi e l’avvio di 14.914 partite Iva. Di questi imprenditori però il 58% dichiara zero reddito e il 21% inferiore a 5.600 euro. In questi dodici anni tuttavia sono stati accertati debiti fiscali per 900 milioni, a fronte dei soli 33 riscossi dallo Stato (3,7%). Parimenti su 260 milioni di contributi dovuti all’Inps, solo 9 milioni (3,5%) sono tornati nelle casse dell’Erario, per una infedeltà fiscale che si assesta al 95%. Nello stesso periodo inoltre tramite i soli intermediari finanziari ufficiali sono stati trasferiti all’estero 570 milioni di euro.

«La difficoltà nell’arginare questo illecito sommerso sta nel costante turnover delle imprese spiga De Giacomo . Solo nel Trevigiano negli ultimi due anni hanno aperto 331 partite Iva cinesi e ne sono state chiuse 317. Ci sono singoli imprenditori che ne hanno aperte più di 20 in cinque anni. Ciò perché queste imprese vengono aperte e chiuse in un lasso di tempo più breve della durata dell’iter per avviare i dovuti accertamenti e individuare gli illeciti. Restano attive qualche mese senza pagare le tasse e versare i contributi, fanno sparire i profitti e chiudono. Un problema che non riguarda solo il Veneto né la sola imprenditoria cinese, che è tuttavia un fenomeno particolare. È un circuito chiuso, che ha richiesto lo sviluppo di nuove strategie di indagine in cui la tecnologia gioca un ruolo importantissimo. Creiamo costantemente nuovi software e banche dati per individuare i casi sospetti, l’unico modo per intercettare le irregolarità negli oltre sei milioni di partite Iva attive nel Paese».




4 pensieri su “Imprese cinesi “apri e chiudi”, dichiarano reddito zero e si prendono aiuti statali”

  1. ahahhahhah
    mo se sono avvertiti che i cinesi non pagano tasse?

    Possibile che sto Zaia, non si mai chiesto perche i veneziani svendono
    e i cinesi comprano?

    Se una attivita e’ fallimentare per un italiano
    a maggior ragione lo e’ per un cinese,

    Non bisogna essere dei premi nobel della lega, per capire che c’e qualcosa che non quadra,
    ed assumere un interprete per fare indagini, non e’ cosi difficile.

  2. Ci sono non pochi esponenti di destra, e del giornalismo ad essa collegata, che difendono i cinesi perché lavorano.

    1. Tipica dabbenaggine italiota… chissà se continueranno a lodarli ancora quando loro lavoreranno anche al posto dei loro figli.

      Ma questo ragionamento sa tanto genuflessione verso le sinistre per dire: io non sono razzista.Basta che lavorano sono miei fratelli.

      Sicuramente un male minore rispetto all’immigrazione landestona votata alla delinquenza. Ma chi ci dice che quest’ultima non sia concepita da menti raffinatissime come “mezzo” di distrazione?

      1. Perché sono fottutamente liberisti. Non importa a loro la provenienza dell’imprenditore, ma che dia lavoro e paghi le tasse. Può anche essere condivisibile come concetto, però non è giusto subire una colonizzazione economica e commerciale.

        È indubbio che i cinesi rispetto a esteuropei, magrebini e subsahariani, raramente sono protagonisti di fatti di cronaca. E sono numerosi come comunità straniera. Ma è inaccettabile che con le loro attività commerciali hanno praticamente invaso le nostre città. E nessuno mi toglie dalla testa che i soldi per aprire queste attività vengono elargiti dal loro Stato.

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