Emilia, strage di anziani in case riposo: 363 morti, mischiati con pazienti coronavirus

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Mentre le toghe rosse vanno a caccia di non si sa cosa in Lombardia, l’Emilia è piena di casi “Trivulzio”. Poche mascherine. Ospiti Covid tra gli anziani. Pochi tamponi. E strutture dove il 70% degli ospiti ha contratto il virus.

In Emilia parliamo di centinaia di morti. Tra febbraio e marzo sono morte 352 persone, il 6% degli ospiti. Un’ecatombe. Almeno la metà sarebbero deceduti proprio per il coronavirus o sintomi simil-influenzali. Che è come chiamavano il coronavirus prima di scoprire che era in Italia.

È la stessa percentuale registrata in Lombardia, eppure se ne parla molto meno. A questi vanno aggiunti 363 ospedalizzati e altri 150 in regime di quarantena in struttura. Fino al 7 aprile le autorità hanno realizzato appena 508 tamponi: 282 casi positivi. Per un totale di 3.254 ospiti totali.

Alla casa “Madonna della Bomba Scalabrini” a Piacenza, su 100 ospiti ne sono morti trenta. A Villa Margherita, uno degli istituti più colpiti del Modenese, è morta anche Anna Caracciolo, operatrice sanitaria di 36 anni. Insieme a 58 anziani.

Più del 50% degli operatori sanitari è stato interessato dal contagio.

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A Reggio Emilia si contano 160 persone infette sulle 660 ospitate nelle strutture residenziali. A Villa Rodriguez, in uno dei quartieri di Bologna, il 73% degli ospiti ha contratto il virus (53 su 72) e tra i dipendenti solo 21 su 60 sono stati risparmiati. Di casi simili ce ne sono a Sasso Marconi, Rimini, Budrio. All’Istituto Sant’Anna e Santa Caterina, invece, 18 persone sono morte con sintomatologia riconducibile al Sars-Cov-2. In molti casi non si riesce a sapere nulla di certo: non si fanno tamponi.

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Alla Casa residenza “Il Melograno” di Borgonovo Val Tidone, sulle colline di Piacenza, la struttura si è mossa in “autonomia” e solo così è riuscita ad evitare una strage: “Noi siamo stati abbastanza bravi, perché contrariamente a quelle che erano le prime linee guida che ci consigliavano semplicemente di lavarci spesso le mani e di mantenere le distanze, noi il 23 febbraio abbiamo blindato la struttura”. L’unico modo di evitare le stragi.

Purtroppo si tratta di una mossa singola, mentre l’intero sistema nei primi giorni sembrava brancolare nel buio. “All’inizio ci veniva comunicato che si trattava poco più di una influenza pesante – conferma Pirazzoli – Questo ci ha lasciato un po’ impreparati. Noi non abbiamo avuto nessuna segnalazione finché tutto non è scoppiato”.

L’8 marzo la giunta lombarda chiede alle Rsa di accogliere alcuni pazienti per alleggerire il peso sul sistema sanitario, sommerso da infetti e con le terapie intensive al collasso. Si tratta di una scelta contestata da molti e che è finita al centro di un’indagine della procura meneghina. Nello stesso periodo, però, anche in Emilia alcuni ospedali inviavano nelle residenze persone con sintomatologia Covid-19 nell’ultima parte della quarantena o allo stadio conclusivo della malattia.

Lo rivela don Andrea Campisi: “Nelle ultime settimane abbiamo dato questo supporto, accogliendo 5-6 persone che, una volta terminato l’isolamento, torneranno a casa”.

“Le prime indicazioni che ci sono state date – racconta un’operatrice – ci dicevano che la mascherina non andava messa se non in caso di contatto ravvicinato con una persona positiva al coronavirus”. Di istruzioni di non indossare i Dpi “per non allarmare i familiari” ne parla anche il sindacalista della Cgil modenese. Ed è possibile sia avvenuto altrove. Mariacarla Setta, che all’interno dell’Istituto Sant’Anna a causa del Covid-19 ha perso la madre, punta il dito contro la mancanza di strumenti adeguati a salvaguardare ospiti e personale: “Questi poveri Oss, infermieri, persino una dottoressa, si sono contagiati perché non avevano nessuno strumento di protezione. Usavano gli stessi guanti e andavano da un anziano all’altro, infilando in bocca le mani per dare loro le pillole”. La struttura nega, ma va detto che in Emilia le protezioni per i dipendenti, un po’ come in tutta Italia, per diverse settimane sono arrivate col contagocce. “Nelle strutture si è registrato, e si registra tuttora, un problema legato ai Dpi – spiega De Santis – La situazione non è uguale in tutte le residenze, ma in alcuni centri per anziani c’è un problema evidente di approvvigionamento per via dei costi della competizione”. Quando arrivano, sono poche. “Ogni due o tre giorni ci viene mandata dall’Asl la fornitura di Dpi – racconta Silvia – Noi siamo circa 75 operatori socio-sanitari e 20 altri dipendenti tra infermieri e fisioterapisti, ma riceviamo di volta in volta circa 50 mascherine, una cuffia monouso e tre flaconi di gel”. Troppo poco, così per sopravvivere occorre arrangiarsi. “Se avessimo dovuto basarci sulle consegne, sarebbe stato sicuramente più difficile”. Pirazzoli è tranchant: “La regione è stata latitante: abbiamo sentito tanti proclami, ma di mascherine cominciamo a vederne solo ora”.

Il problema è che quando le mascherine mancano, il personale rischia di ammalarsi e di diventare una fonte inestinguibile di contagio. Servirebbe realizzare tamponi preventivi o uno screening di chi entra in contatto con gli anziani, ma neppure qui è stato fatto. “Io da almeno due settimane sento dire che la regione Emilia Romagna intende fare una prova a tappeto con i tamponi”, racconta Silvia, “ma finora non è andata così”. Intanto come in un domino i sanitari si ammalano e rischiano di infettare i degenti. Poi quando mostrano i primi sintomi devono restare a casa lasciando le residenze senza personale. All’Istituto Santa Caterina e Sant’Anna in certi momenti si è arrivato anche ad una carenza del 35% del personale. Una ferita “che ha reso difficile questa battaglia”, spiega Pirazzoli che in cuor suo sperava si potessero avviare “tamponi a tappeto”. Ma nessuno finora si è mosso in questa direzione. A dire il vero la regione avrebbe annunciato test seriologici per gli operatori sanitari, “ma sono passati 20 giorni e ancora siamo al punto di partenza”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. In fondo anche quando ci sarebbe stato il bisogno di sottoporre a tampone gli anziani febbricitanti che iniziavano a “desaturare e ad andare in apnea”, la procedura si è dimostrata farraginosa. “Fino al 23 marzo non abbiamo avuto la possibilità di realizzare i tamponi – racconta Pirazzoli – Ciò che siamo riusciti a fare qui è stato grazie all’aiuto di medici validi che da noi restano 24 su 24”. Altrimenti? “Temo che qui sarebbe stata un’ecatombe”.

Come abbiamo scritto ieri, lo stesso è avvenuto in quasi tutte le regioni italiani. E’ la dimostrazione che le linee guida arrivavano al Governo. Ed erano sbagliate. E’ a Palazzo Chigi che deve andare la Finanza.




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