Dramma radical chic sulle colonne de L’Espresso. Dove un giornalista racconta una storiella che se non fosse vera sembrerebbe totalmente inventata.
[…] la donna nera che ha cacciato dal suo ufficio postale non solo è cittadina italiana, ma fa anche da badante a due anziani avvocati. Che, nonostante gli anni, sono scesi dal loro appartamento per constatare con i loro occhi se quello che denunciava la donna era vero. Era vero: e loro ne sono stati testimoni.
Ma c’è di più, per lo sfortunato direttore delle poste di via Urbano III: uno dei due avvocati ha il figlio che da un po’ di anni fa il giornalista. Cioè chi scrive, qui.
Allora, andiamo con ordine. È venerdì 2 novembre, sono le 2 del pomeriggio e la signora O. decide di passare all’ufficio postale durante la sua pausa pranzo, prima di andare da mio padre. È correntista, deve sbrigare delle pratiche. La signora O. è un’italiana di origine somala, da 25 anni nel nostro Paese. Nera, di religione musulmana, quando è fuori casa indossa un foulard che le copre i capelli e le spalle, lasciandole libera la fronte e libero il mento. Non è neppure un hijab, tecnicamente. È proprio un semplice e sobrio foulard sul capo. Quando è in casa di mio papà se lo toglie – O. è tutto fuori che una bacchettona, la conosco da molti anni. Quando esce invece si mette questo benedetto foulard, per rispetto, dice.
Questi poveri radical chic da salotti milanesi con la somala in cucina e il figlio giornalista dell’Espresso.
In sintesi, il direttore di un ufficio postale avrebbe – condizionale, perché pur facendone il nome, contravvenendo ad ogni regola deontologica e di buon gusto, al ‘razzista’ non viene dato diritto di replica – cacciato la somala perché velata.
L’articolo, più che una denuncia, sembra un atto di killeraggio. Una resa dei conti personale. Il giornalista si approfitta del suo ruolo per linciare un cittadino, al quale non si dà alcun diritto di replica. Ma indica il nome, l’ufficio e altro: se domani un lettore fanatico dell’Espresso, magari musulmano, andasse a fare una strage in quell’ufficio per “lavare l’offesa all’Islam”?
E notate bene: nel momento in cui scriviamo non ci sarebbe denuncia. Non c’è il nome del giornalista, ma c’è il nome del presunto razzista. Che però non ha diritto di replica.
Poi parlano di libertà di stampa: non è usare il mezzo per i propri fini personali. Non è un mezzo per ‘uccidere’ mediaticamente qualcuno che, a differenza del giornalista, non ha a disposizione un giornale per difendersi.