SOTTO ASSEDIO: GLI SLUM AFRICANI MINACCIANO L’ITALIA

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Ad agosto il governo ha nominato per decreto tre commissari straordinari – tre prefetti – per le zone di Rosarno-San Ferdinando, Foggia-Manfredonia e Castel Volturno. Gli slum africani dove vivono le ‘risorse’ hanno così i loro ‘sindaci’.

L’obiettivo è scritto nero su bianco: “Superare le situazioni di particolare degrado” in territori “caratterizzati da una massiva concentrazione di cittadini stranieri”. In due righe ammettono che le cosiddette risorse portano degrado. Al che, forse, la soluzione migliore sarebbe evitare di importarne altre, no? No.

I ghetti crescono e si moltiplicano. Ormai sono un arcipelago. Ma perché i migranti si concentrano proprio in quei luoghi? Perché non servono. Non possono trovare lavori normali che garantiscano una vita normale, così si assiepano in veri e propri slum africani nel cuore dell’Italia. Fanno, come ci dicono, i “lavori che gli italiani non vogliono fare”: in realtà fanno lavori che gli italiani farebbero in condizioni non schiavili. Lavori che in altri paesi fanno ormai le macchine nel 90% dei casi.

A. clandestino, si fa strada nel fango, tra rifiuti e casette di cartone. Accanto a lui un gruppo di gambiani costruisce nuove abitazioni martellando su travi di legno. Nigeriani inventano negozietti: vendono burro di arachidi, bustine di Oki e doppio concentrato di pomodoro. La Protezione Civile ha messo su tende per 500 posti, recintati e videosorvegliati. È il terzo tentativo. Ogni volta i campi dello Stato sono stati circondati da baracche e rifiuti, lasciati nell’abbandono e quindi ricostruiti un po’ più in là.

Anche questa volta, intorno all’insediamento statale, è cresciuta una città informale. Oggi conta duemila abitanti che vivono in baracche affollate: è il ghetto più grande d’Italia.

“Lavorano a cottimo o a giornata, senza contratto né busta paga, con una retribuzione ben inferiore a quella sindacale”, racconta l’organizzazione umanitaria Medu. Ed è il motivo per il quale questi lavori gli italiani non li possono più fare. E anche perché non si pensi alla meccanizzazione dell’agricoltura: ci sono gli schiavi. Un freno allo sviluppo. Lo stesso freno che fu tra le cause del declino dell’Impero Romano.

“Dappertutto servizi igienici assenti o fatiscenti. Non c’è luce e l’acqua si prende dai bagni maleodoranti o da una fontana vicina. Non è potabile ma qualcuno la usa anche per bere. Senza energia elettrica, sono le bombole a gas e qualche generatore a benzina a garantire un po’ di acqua calda e la preparazione dei pasti. Tutt’attorno l’odore nauseabondo della plastica e dei rifiuti bruciati”.

A. il clandestino, tre anni fa è sbarcato a Pozzallo con una delle tante navi ‘umanitarie’. Lo hanno trasferito in un Cas nei pressi di Magenta. Alla commissione per l’asilo ha raccontato di una lite con fratello, del padre ucciso, dei rischi che corre in patria. Ovviamente non gli hanno creduto. Uno degli avvocati che bazzicavano il centro ha chiesto 1.200 euro per il ricorso, racconta lui, dimenticando che i ricorsi sono a carico del contribuenti. Ricorso che comunque A. ha perso. La prossima udienza è prevista a febbraio. Perché lui ha fatto un altro ricorso.

“In Mali facevo l’autista, 600 km a viaggio partendo da Bamako”, racconta. “Ma so anche montare i pannelli solari”.

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Va a Napoli e trova lavoro presso un parrucchiere africano. Conosce lo sfruttamento tra connazionali: prende 180 euro, ne spende 100 per un posto letto (solo notturno, di giorno non può entrare in casa). Mentre fa la barba a un cliente, sente la parola che gli cambierà la vita: Rosarno. Gli dicono che lì si trovano lavoro e documenti. Invece rimane bloccato in una baraccopoli.

Nouredine, Lamine, Soleiman, Ahmed e gli altri abitanti del ghetto sono le macerie del sistema di accoglienza. “L’80 per cento è in Italia da meno di tre anni”, spiega Medu. Sono “diniegati” dalle commissioni asilo: l’errore è stato traghettarli in Italia, quando si poteva capire già dall’inizio che un africano non può fuggire dalla guerra in Siria.

Ora, a migliaia, passano l’anno cercando lavoro nelle raccolte delle arance e dei pomodori. Risorse, direbbe la Bonino. Che non ha sentito parlare di robotica.

L’Italia, dicono questi clandestini che si sono spacciati per profughi, è “una grande prigione. Tra Rignano Garganico e Borgo Mezzanone, si espande l’arcipelago dei ghetti. La “pista” è il più surreale. Una ex base Nato divisa tra il Cara – un centro di accoglienza statale – e una massa di casette, tende e baracche. Suleyman è un signore somalo che vive tra reticoli di cavi elettrici e negozietti. Cerca qualcuno per interpretare una serie di fogli della Commissione asilo di Gorizia. C’è un’incongruenza sull’età e per questo ha ricevuto un diniego che lo ha sbattuto all’altro estremo della penisola.

Accanto a lui ci sono migranti in attesa di ricorso a Crotone, c’è chi attende notizie dalle questure di mezza Italia e chi ha già ricevuto un rifiuto.

E’ questa gente senza prospettive, che si rifugia dove trova un’abitazione a costo zero, cibo quasi gratis che ci dovrebbe pagare le pensioni. Raccogliendo pomodori che non ci sono.

Negli ultimi anni in Italia sono arrivati quasi 1 milione di clandestini. Il 60 per cento ha ricevuto un diniego, il che significa 400 mila potenziali clandestini che finiscono per nutrire l’illegalità.

Nel 2017 ci sono state comunque 130mila richieste. Le hanno presentate soprattutto nigeriani, bangladesi, pakistani, gambiani e ivoriani. Gente con poca probabilità di accedere all’asilo e che anzi andrebbe rispedita a casa a calci in culo: per rispetto a chi fugge da guerre reali. Invece rimangono qui, come clandestini o mantenuti. La percentuale di dinieghi, che dovrebbe essere al 100% è rimasta costante (60 per cento), ma anche i ‘diniegati’ non vengono espulsi: e così abbiamo altre 50mila persone pronte per popolare i ghetti e finire in mano ai caporali. Carburante infinito per lo schiavismo dei prossimi anni. Un freno allo sviluppo. Un danno ai lavoratori italiani. Un degrado senza fine.

Blocco sbarchi. Espulsioni di massa e bonifica degli slum africani in giro per l’Italia.