Famiglia islamica ci voleva tutti morti: “Le italiane sono sporche”

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L’operazione antiterrorismo islamico battezzata dagli inquirenti «talis pater», che venerdì scorso ha portato all’arresto a Como del cinquantunenne egiziano Fayek Shebl Ahmed Sayed e all’emissione di un mandato di arresto per il figlio ventiquattrenne Saged, porta alle luce varie importanti dinamiche del jihadismo degli immigrati che vivono in Italia. La prima, più lampante, è quella della radicalizzazione di interi nuclei familiari. Il padre, infatti, era un veterano del conflitto bosniaco, un antesignano di quelli che oggi comunemente chiamiamo “foreign fighter”, e che sono gli immigrati che vanno a combattere per l’islam: l’uomo aveva combattuto con milizie arabe a fianco dei bosniaci musulmani contro serbi e croati. E noi processiamo i serbi e i croati, ovviamente. Insieme alla moglie aveva poi allevato i figli al credo islamico.

Saged era l’orgoglio di casa, emulando le gesta del padre vent’anni dopo partendo per la Siria per unirsi prima a Jabhat al Nusra, il gruppo jihadista di matrice qaedista rivale dello Stato Islamico, e poi alle truppe del Califfato. I suoi genitori gli mandavano 200 euro al mese e lo glorificavano, mentre chiamavano «cane» il fratello minore che invece preferiva farsi le ***** italiane. Questa dinamica non è isolata e, secondo un database dell’Ispi, altri tra i 130 jihadisti partiti dall’Italia per la Siria sono «figli d’arte».

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Il padre faceva parte del nucleo storico della moschea milanese di viale Jenner. Fu proprio durante il conflitto bosniaco che viale Jenner balzò agli onori della cronaca allorché il suo imam, l’egiziano Anwar Shabaan, divenne il leader del battaglione dei mujaheddin arabi in Bosnia e la moschea stessa tappa obbligata per le centinaia di foreign fighter che da tutto il mondo si recavano a combattere nei Balcani.

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Il figlio 23enne è latitante, si troverebbe ancora a Idlib. Dove si è arruolato nella brigata jihadista Nour El Din Al Zenky, vicina ad Al Qaida e antagonista all’Isis. Halima, moglie e madre dei due indagati, è stata rimpatriata in Marocco per motivi di sicurezza pubblica. È stato Sayed a inviare il primogenito al fronte. Perché in Italia conduceva una vita dissoluta: «La mia intenzione era che lui andasse là per purificarsi, per diventare un essere umano», dice intercettato il saldatore. Quando il ragazzo viene estromesso dalla brigata a causa delle simpatie pro Isis, è sempre il padre a intercedere e a farlo riammettere.

Sayed, sottolinea il capo del pool anti terrorismo della Procura Alberto Nobili, «ha tentato di convincere a partire anche il figlio minore, di 22 anni, ma non c’è stato niente da fare. Era la pecora nera della famiglia. Il ragazzo non era interessato alla guerra e veniva denigrato dal padre perché viveva all’occidentale. I genitori lo consideravano un fallimento». Ahmed incalzava il secondogenito: «Tu vivi nel peccato. Basta che stai vivendo con una sporca italiana». Invece della scelta del figlio maggiore diceva: «Vale più di cento volte una preghiera».

Anche per noi è sporca, non perché italiana, ma perché frequenta uno di ‘loro’.