Cristiana rapita da ISIS racconta l’inferno islamico nella prigione sotterranea – VIDEO

Vox
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Un anno,un mese e cinque giorni. Maryam scandi­sce con voce ferma il tem­po della sua prigionia sotto gli islamici di Isis a Raqqa.

Cattu­rata a febbraio 2015 nella valle di Khabur, nel nord-est della Siria insieme ad altri duecento cristiani assiri, la ragazza è stata l’ultima a essere liberata da un na­scondiglio sotterraneo di Raqqa.

Il me­rito è di Mar Afram Athneil, un vescovo siriano che ha raccolto milioni di dollari tra le comunità cristiane di tutto il mondo per riportare a casa gli ostaggi. Il ve­scovo non rilascia dichiarazioni finché anche l’ultima ragazza – una quattordcenne fatta sposare a un combattente dell’Isis – non sarà liberata.

Mar Afram ha venduto anche la sua croce d’oro in cambio di un trattamento di riguardo per i suoi fedeli, compresi cibo e vestiti durante la prigio­nia. Ha lavorato nell’ombra e non vuole rendere nota la cifra che è riuscito a raccogliere.

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«Era mattina», ricorda Maryam, «abbiamo provato a scappare ma il fiume era in piena ed eravamo circondati. Hanno catturato mio padre mentre io e mia mamma ci siamo nasco­ste a casa di un vicino. Dopo un paio di giorni siamo state scoperte e portate a Shaddadi». Nel villaggio a una cinquan­tina di chilometri dalla città di Hassakeh, uomini e donne sono stati separati. ) Maryam e sua madre sono finite in “una casa di tre stanze con altre 40 donne. «Eravamo controllate in continuazione e i nostri carcerieri non volevano che pregassimo. Però non ci facevano mancare nulla. Mangiavamo i” “polli e le verdure dell’orto».” “Dopo cinque mesi a Shaddadi sono state trasferite a Raqqa. In un primo momento le prigioniere erano ancora tutte insieme, poi Maryam è stata messa in isolamento mentrelesue ex compagne dicella venivanoliberate una a una:«Non immaginavo che nel frattempo avessero liberato tutte le altre. Se me lo avessero detto probabilmente mi sarei uccisa». Dalla sua cella umida Maryam non vede­va mai la luce del sole, così si fingeva ammalata per andare in ospedale e usci­ re all’aperto.

Era luglio 2016 e aveva da poco compiuto sedici anni. Ci sono voluti due mesi per tornare a vivere normalmente. All’inizio Maryam si nascondeva in casa e usciva solo per andare a messa.

Dopo l’inizio del conflitto siriano, a Raqqa si conta­ vano 23 famiglie cristiane, 5 dopo il 2014, contro le 1.500 presenti prima del 2011. Chi ha potuto lasciare la città lo ha fatto quasi subito e ha perso ogni possedimento. Chi è rimasto ha dovuto sottostare a una serie di imposizioni, come la Jizya, la tassa obbligatoria per gli infedeli quando vivono in un paese a paggioranza islamica: «200 mila lire siriane (330 € ndr.) all’anno», spiega Um Alias al telefono da Homs, dove è andata a vivere dopo la fuga da Raqqa , «e chi aveva dei figli anche di più».

Lei e suo marito sono stati gli ultimi evacuati dalla città il15 ottobre scorso. La voce della donna si spezza quando ricorda il rapimento del marito: «Nessuno voleva darmi sue notizie finché un ragazzo dell’Isis mi disse di averlo visto. Così andai da loro, ma mi ignorarono. Gli permisero di uscire solo qualche giorno per operarsi “agli occhi, poi lo riportarono in prigio­ne fino all’anno scorso». Nel frattempo Um Alias non usciva di casa per paura di essere importunata «Perché non ti converti?», le gridavano in strada, «an­drai all’inferno».In quanto cristiana era obbligata a girare a capo scoperto e, come gli ebrei costretti a indossare la stella di David nella Germania nazista, i cristiani di Raqqa erano riconosciuti dalle scarpe: blu in un piede, rosse nell’altro. Karis, che oggi vive ad Alep­po, non riesce a dimenticare gli incontri religiosi a cui erano obbligati a parteci­pare tutti i giorni: «Ci invitavano a di­scutere, ma poi non ci facevano parlare. Ricordo che un giorno gli dissi: «Potre­te farci centinaia di lezioni. Ma siamo cristiani e moriremo cristiani».

Noi moriremo islamici se non tiriamo fuori le palle.