Vivere lì dove nessuno vuole vivere. Resistere nonostante il degrado, la paura, le angherie, le amministrazioni che non risolvono i problemi. Marco Trevisan, 44 anni, ingegnere, sposato e padre di due bimbi di due anni e mezzo, a suo modo è un sopravvissuto. È l’ultimo italiano rimasto in via Cairoli e non ha alcuna intenzione di andarsene. Vive lì da quando è bambino ed è testimone del decadimento di questa fetta di città che si nutre di stazione. «Ormai con gli spacciatori ci vado d’accordo, io mi sento difeso e protetto da loro. È un po’ quello che succede con le mafie. Se lo Stato è assente, sei costretto a cercare appoggi in qualche maniera».
Cosa intende?
«L’estate scorsa sono venuti a rubare a casa mia. Sulla strada c’è una telecamera di videosorveglianza. Speravo che qualcuno controllasse le immagini, invece no: denuncia archiviata e nessuno ha guardato. Gli spacciatori mi hanno aiutato a trovare parte della refurtiva e mi hanno promesso protezione in cambio di omertà. Se io non chiamo la polizia, loro fanno la guardia. Così adesso quando arrivo a casa lascio l’auto con le chiavi inserite e nessuno la tocca».
Questa però è una china pericolosa. E l’omertà non produce mai nulla di buono. Tutt’altro.
«Io ho trovato teste di polli dentro la cassetta delle lettere e sono stato minacciato con un coltello. Sono anni che combatto. La situazione ti costringe a trovare protezioni laddove ti vengono offerte».
Qual è il problema precisamente? Lo spaccio?
«Il problema non è che uno vende la dose, oggi è illegale ma domani chissà. Ciò che dà fastidio è che chi viene qua vive nel degrado. Ciò che rende impossibile la vita da queste parti è l’inciviltà. Di notte si ubriacano, si picchiano, fanno pipì per strada e anche altro. L’illuminazione è insufficiente, di conseguenza qualcuno viene appositamente per urinare. E il risultato è che casa mia si trova al centro di una latrina diffusa e mia moglie all’imbrunire non può uscire a buttare la spazzatura. Avevo riposto tanta speranza in una Chinatown. I cinesi sono ordinati e lavorano dalla mattina alla sera. Con loro puoi parlare e ragionare. Si radicano, hanno bambini. Qui però stanno chiudendo persino loro. Non è un problema etnico. È la zona che è invivibile e infrequentabile».
L’ultimo italiano della stazione di Padova non riesce a correlare il degrado in cui vive con il ‘problema etnico’. Se siamo ridotti così è grazie a quelli come lui: che tollerano.