«Forse, ora che li hanno presi, svegliandomi al mattino potrò tornare a sorridere. Conto nella giustizia e spero che quei due siano puniti per quello che hanno fatto a mia figlia e alla sua amica. E se così non fosse, fuori ad aspettarli, stavolta, ci sarò io».
Così il padre di una delle due adolescenti aggredite e violentate da Mario Seferovic, 21 anni, lo scorso 10 maggio, in via Renato Birolli, alla periferia est di Roma.
La domanda che ci poniamo è come mai quel campo nomadi sia ancora lì. Denota una certa inazione da parte della popolazione locale. Sintomo di decadenza civile. Come sintomo di decadenza è che due ragazzine abbiano accettato l’appuntamento con due zingari: boldriniane. Non sanno che i pregiudizi e il razzismo salvano la vita?
“Le modalità con cui le violenze sono state ideate e portate a termine – si legge in un passaggio delle cinque pagine dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Costantino De Robbio – sono sintomatiche di estrema freddezza e determinazione unite a un’assoluta mancanza di scrupoli e a non comune ferocia verso le vittime degli abusi, ciò che induce a ritenere che possa trattarsi di casi non isolati ma destinati a ripetersi in coerenza con una personalità incline alla sopraffazione e al brutale soddisfacimento di istinti di violenza, sicuramente valutabili come indice di sussistenza del pericolo di reiterazione del delitto”.
“È difficile prosegue – prosegue il padre – riuscire a superare tutto questo, ciò che è accaduto a mia figlia, alla sua amica e alle nostre vite”.
Una delle due aveva già visto Mario Seferovic in più di un’occasione, sempre sull’autobus che attraversa via Prenestina. Perché gli zingari prendono gli stessi bus dei vostri figli: altrimenti sarebbe razzismo.
“Papà – racconterà, poi, la giovane dopo lo stupro – mi faceva ascoltare delle canzoni sul bus…”. Secondo il padre, i nomadi avevano adocchiato la figlia sull’autobus e, per diverso tempo, hanno fatto in modo di incrociarla spesso. Finché non le ha chiesto l’amicizia su Facebook. Ovviamente non ha confessato la vera età, me le ha fatto credere che fossero più o meno coetanei. “Mi diceva di avere 16 anni…”, ha rivelato la ragazzina. Anche sul nome nome ha barato. Sul web si è presentato come “Alessio il Sinto”.
Il racconto di quel maledetto 10 maggio è drammatico e violento. “(Seferovic ndr) ha iniziato a stringerci per i polsi – ha spiegato una delle ragazze agli inquirenti – mentre il suo amico ci spingeva da dietro”. Poi le hanno legate con le manette a un cancello ed è iniziato l’incubo. Le due romane sono state stuprate una dopo l’altra. Maikon Bilomante Halilovic controllava che nessuno imboccasse quel vicolo stretto e buio. Dopo le violenze, le due sono state liberate e hanno aspettato l’autobus per tornare a casa. Erano distrutte, in lacrime. Seferovic non se ne andava. Un passante si è avvicinato e ha chieste loro se andava tutto bene. Seferovic gli ha intimato di farsi i fatti suoi e l’uomo se ne è andato impaurito.
“È stato terribile ascoltarla – racconta il padre – ci è voluto un po’ prima che riuscisse a raccontare; hanno influito le minacce che (Mario Seferovic, ndr) le ha fatto, ma anche la paura, il senso di vergogna per quello che le era capitato. Sì, si vergognava, indifesa. Ora stiamo cercando di andare avanti”. Dopo lo stupro, il rom ha continuato a perseguitare una delle ragazzine. La riempiva di messaggi e telefonate anonime, la minacciava di morte. È stato il padre a fornire agli inquirenti gli elementi necessari a incastrare i due rom. “Meno male che li hanno presi – continua il padre – mi auguro che la giustizia faccia il resto… se così non fosse ci sarò io ad aspettarli quando usciranno di prigione. Devono pagare per quello che hanno fatto, non possono farla franca”.
Ma ancora: come mai il campo nomadi di via di Salone è ancora lì?