Reggio, ristoratore sfida buonisti: “Non assumo camerieri neri, incassi crollerebbero del 90%”

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«Ma quale razzismo, qui si tratta semplicemente di obiettività. L’albergatore romagnolo ha fatto benissimo a dire no al ragazzo di colore come cameriere. Non si deve scusare di nulla. Io faccio lo stesso tipo di scelta per il mio locale. È tempo di dire basta a questo strisciante buonismo: è preoccupante e persino pericoloso». A sostenerlo è un uomo che non ha paura di dire ciò che pensa, Sergio Rossi, titolare del Ca’ di pom, bar-risto di via Roma a Reggio Emilia. Verrà linciato. Ma da leone, non da pecora.



La sua è una presa di posizione destinata perlomeno a far discutere…

«Ne sono consapevole. Ma voglio rompere questa patina di ipocrisia che ammorba la questione immigrazione».

Per il suo locale quindi niente camerieri di colore?

«Proprio così. Faccio l’imprenditore e cerco di scegliere per la mia attività ciò che mi fa guadagnare, dai prodotti al personale».

E queste scelte passano dal rifiutare un lavoratore con la pelle nera?

«Ascolti bene. Non assumerò mai un uomo: i miei clienti sono maschi e vogliono una donna. E non assumerò mai un nero perché siamo più razzisti di quanto crediamo. Lo faccio nel mio interesse, nell’interesse della mia attività».

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Cosa succederebbe se assumesse un lavoratore con la pelle scura?

«Equivarrebbe a perdere il 90% del mio incasso. Smettiamo di fare i buonisti a tutti i costi e facciamo un tuffo nella realtà».

È così sicuro che perderebbe clienti?

«Non ho la controprova, ma preferisco non rischiare».

Ma lei non assume persone di colore perché pensa non siano bravi a fare i baristi?

«No, sarei uno stupido a crederlo. Gliel’ho ben spiegata la ragione…».

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Chi lavora nel suo risto-bar?

«Una cameriera italiana, molto carina. Che spesso devo scortare alla macchina perché viene puntualmente provocata, in ogni modo, dai tantissimi stranieri che gravitano nella zona. E ha il terrore a rimanere sola, specialmente quando cala il buio».

Le è capitato che ragazzi di colore portassero il curriculum?

«Certo. E io ho risposto subito: ‘No, grazie’. Non do nessuna inutile speranza. Per il mio bar non assumo uomini o persone di colore. E non ho paura a dirlo».

E non crede che questo sia razzismo?

«No, è una scelta imprenditoriale. E poi basta con questa parola…».

In che senso?

«Non bisogna temere di essere tacciati di razzismo solo perché si è lucidi e obiettivi. Ormai quella parola è diventata un’arma per zittire le critiche. Ma basta aprire gli occhi per vedere come stanno le cose».

E lei cosa vede?

«Ormai si tollera dagli extracomunitari quello che non si è disposti a sopportare dagli italiani. E questa è una cosa gravissima. Perché gli stranieri se ne approfittano. Sono persone intelligenti, conoscono diverse lingue e tutti i loro diritti: sanno perfettamente come muoversi. Ormai anche la giustizia pare essere a due binari: pene pesanti per gli italiani, più leggere per gli extracomunitari».

Lei teorizza una sorta di razzismo al contrario…

«Esattamente. E i risultati sono drammatici».

A quali risultati si riferisce?

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«Il mio bar è in via Roma, una zona centrale della città. Ma qui non passano ormai più italiani, e le donne non vengono neppure quando ci sono le iniziative estive. Hanno paura. Non è certo questa la società che vogliamo».


I media di distrazione di massa ci impongono non solo cosa dire, ma anche cosa pensare. Un’etica alla rovescia, nella quale assumere italiani (veri) invece di africani è diventato razzismo.

E non tutti hanno il coraggio di dire cosa pensano e di ribadirlo, come ha fatto questo coraggioso ristoratore. Molti vengono costretti dal linciaggio mediatico alle ‘scuse’. Un piccolo omicidio della persona, che non è più tale quando non ha la libertà di pensare e dire ciò che vuole.