Paolo Quercia, direttore del centro studi Cenass, ha appena terminato una ricerca su «Migrazioni e sicurezza» per l’unità di analisi del Ministero degli Affari esteri, che verrà presentata in settembre.
Chiudere i porti alle navi delle Ong risolve il problema?
«È una minaccia comprensibile, ma non basta. Se le navi delle Ong entrano nelle acque italiane e poi vengono lasciate fuori dai porti rischiamo un disastro umanitario nelle nostre acque ed i porti verranno riaperti. Bisogna impedire l’accesso alle acque territoriali alle Ong che non rispettano alcune condizioni minime di collaborazione con l’Italia. E lasciare attraccare solo le navi battenti bandiera europea, a patto che i paesi di bandiera contribuiscano alla redistribuzione dei migranti. Altrimenti vietiamo gli ormeggi pure a loro. Il diritto del mare lo consente: trasportare persone in violazione delle leggi sull’immigrazione è un reato, che rende un atto ostile l’attraversamento delle acque territoriali».
È realistico che le navi al posto dei porti italiani attracchino in Francia, Spagna, nei paesi Ue minori come Malta, Slovenia e Croazia o in Tunisia?
«I paesi Ue non lo permetteranno mai, almeno di fronte a numeri così alti di migranti perché sanno che se lo facessero il flusso aumenterebbe ancor più. Ricordiamo poi che molte hanno bandiere di comodo. Diverso è il caso della Tunisia. Con i dovuti incentivi la Ue potrebbe convincere Tunisi a creare gli hot spot (per il controllo di chi ha diritto di venire in Europa come profugo nda) sul suo territorio grazie ad un accordo simile a quello con la Turchia. Il flusso andrebbe a scemare perché i migranti verrebbero sbarcati in Africa e non in Europa. La prospettiva sarebbe quella di restare in un campo delle Nazioni Unite, come ce ne sono a decine in Sudan, dove i migranti però non si fermano. Dalla Tunisia potrebbero ripartire verso l’Europa solo i veri perseguitati e rifugiati».
Il ricollocamento in Europa dei migrati giunti da noi è un fallimento. Cosa si può fare?
«Convincere l’Europa a distribuire i migranti nei vari paesi è una causa persa. Piuttosto l’Europa deve provare a ridurre le partenze lavorando con i paesi di transito dell’Africa sub sahariana, almeno fino a quando non sarà possibile farlo con la Libia come in passato».
In realtà i paesi di transito fanno ben poco
«Certo, ma sono nazioni che hanno milioni di problemi. Bisogna aiutarli a controllare le loro frontiere con una missione di polizia Ue. Se non si possono controllare i confini libici allora presidiamo quelli dei paesi limitrofi: Niger, Chad e Sudan».
Come si possono colpire con efficacia i trafficanti?
«Grazie al modello utilizzato con i pirati somali. Ovvero colpendo i trasferimenti finanziari dei trafficanti, il riciclaggio dei loro proventi, che spesso avviene in Europa ed impedendo i pagamenti dalla diaspora ai trafficanti per pagare i viaggi dei migranti. È necessario costituire una lista nera dell’Onu o Ue con i nomi dei trafficanti e di chi collabora finanziariamente con questi criminali bloccando i loro beni».
C’è un’unica, semplice soluzione: blocco navale davanti le acque territoriali libiche. Tutto il resto è business. Alle invasioni si reagisce con la forza. Ai mezzi da sbarco delle Ong si reagisce con la forza.
E’ la Libia il punto focale. Vanno bloccati lì: e visto che non vivono lì, ma ci arrivano pagando migliaia di dollari da paesi come la Nigeria, tornerebbero indietro e non partirebbero più. Ma sia chiaro: meglio morti che in Italia a spacciare e violentare.
E le Ong che vanno in acque libiche a raccattare da anni clandestini su chiamata dei loro colleghi scafisti, devono essere messe fuorilegge come Soros in Russia. Ma non accadrà, fino a che al governo ci sono i loro complici, padrini e boss.