Nuovi particolari sulla protesta – ne abbiamo scritto ieri – dei profughi ospiti a Formigine di un hotel a 3 stelle.
«Rice in the morning, rice in the afternoon, rice in the evening», «riso di mattina, riso a pranzo, riso a cena, non se ne può più». Il denaro per i profughi alloggiati all’albergo Giardini arriva con il contagocce, in compenso abbondano i cereali. Il giorno dopo l’ ‘aggressione’ ai danni di un’operatrice della Caleidos da parte di una rifugiata che rivendicava la paga del pocket money quotidiano di 75 euro, diventa l’occasione per i media locali di un’intervista ai fancazzisti che gozzovigliano nell’hotel.
Ne esce una discussione esilarante sul cibo:
«E’ buono, ma si mangia troppo riso». Sulla qualità insomma non si discute. Alla reception ci spiegano per esempio che «sono gli stessi piatti che mangiamo noi».
Il nodo è la monotonia del gusto. E d’altronde se accoglienza deve essere, anche un’alimentazione varia non può essere liquidata come una pretesa. Si scopre per esempio che comporre un menù che vada bene per tutti è un lavoro da chirurgo.
I pasti che arrivano all’hotel Giardini provengono da un laboratorio dove operano cuochi professionisti. Maiale naturalmente neanche a parlarne, chi proviene dal Gambia predilige pollo e riso, i nigeriani invece si orientano su ricette a base di pesce affumicato dagli afrori che afferrano alla gola, la pasta al pomodoro non riscuote molti consensi, e anche lo spezzatino in umido dopo un po’ stufa.
«Gli stessi albergatori – spiega Giorgio Dell’Amico, responsabile del progetto accoglienza della Caleidos – cominciano ad avere difficoltà con i fornitori perchè non sanno come regolarsi: diventa molto complicato conciliare le diverse abitudini».
Per Dell’amico è il sintomo di un malesssere psicologico generale: «Il cibo quando non ci sono i soldi e si vive contando le ore che passano non ha sapore. Soprattutto chi è in albergo partecipa poco rispetto per esempio a chi è in appartamento alle attività culturali e formative previste».
In ogni caso il rimedio in cucina potrebbe essere quello di indirizzare i profughi che hanno concluso i corsi di cucina proprio a preparare i pasti per i connazionali, così da migliorare la situazione. «Naturalmente andrebbero pagati, il problema è sempre lì…».