Casa pignorata e comprata all’asta da ‘amico’: imprenditore si impicca

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Giuseppe Pensierini, 61 anni, imprenditore edile. Anzi, era un imprenditore edile, ora è morto. Suicida. Aveva un’impresa con 50 dipendenti: poi è arrivato l’euro, i governi non eletti e la ‘crisi’. L’ultimo chiodo lo ha piantato un ‘amico’.

Le cartelle di Equitalia, le Banche, il pignoramento, la sua casa venduta all’asta. Davvero troppo. Giuseppe si è impiccato proprio in quella casa costata tanti sacrifici.

“Scusami ma non potevo più vivere, sarei morto lentamente e io non volevo che soffrissi tanto. Spero di ritrovarti in un mondo migliore dove posso sposarti di nuovo”, ha lasciato scritto alla moglie.

Costruita da solo. Era stata la figlia Serena a passargli i mattoni che lui riempiva di malta e posizionava per innalzare la muratura.

E’ la storia di un italiano che ha fatto in tempo a vivere l’inizio del benessere in Italia, e poi a vederlo finire. A dieci anni Giuseppe già lavorava, a 19 aveva aperto la partita Iva: quando era una cosa seria, non la scusa per non pagare i contributi al dipendente.

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Appena possibile aveva sposato la donna della sua vita, Antonella. La famiglia era quindi cresciuta con l’arrivo dei figli Serena e Massimiliano. Perché si faceva così: si poteva fare così. Oggi tutto è precario.

Anche per Giuseppe. Che all’improvviso si è trovato in un incubo fatto di debiti. Gli era rimasta la sua casa: “Era certo che non gliela avrebbero mai toccata”, racconta la figlia Serena.

Invece gliel’hanno toccata. E venduta. All’asta. Venerdì scorso. Nonostante proprio il lunedì prima Giuseppe avesse presentato domanda in Tribunale per chiedere di poter acquistare lui l’immobile.

C’erano state altre aste andate deserte ed anche stavolta l’imprenditore pensava, forse, andasse allo stesso modo. Ma non è stato così: un’offerta è arrivata. E, a fare ancora più male, da un suo amico. Tanto che all’inizio sua moglie e i suoi figli non hanno avuto il coraggio di dirglielo. La casa venduta ad un suo amico.
Un brutto colpo davvero, un colpo intollerabile. Anche se all’inizio lui ha fatto finta di nulla. Stando al quotidiano locale ha perfino sorriso alla cara Antonella, con cui divideva la vita da 42 anni. Lei gli aveva detto “dai Giuseppe, ricominceremo piano piano, proprio come tanto tempo fa, quando eravamo giovani”. E lui si era illuminato in un breve sorriso, ma chissà quanta amarezza aveva dentro. Pare non abbia detto nulla, che abbia parlato poco anche con la figlia che gli aveva chiesto di accompagnarla per andare a prendere i nipotini. Quei cari nipotini che in tasca avevano la letterina per la festa del nonno. Ma lui aveva già previsto tutto, anche le scuse da accampare. Così ne ha sciorinato una, ha detto di dover incontrare una persona a Sarzana, per questioni di lavoro.

Serena aveva un presentimento e glielo aveva detto: “Papà non farmi stare in pensiero”. Per questo lo ha chiamato al telefono, e vedendo che non rispondeva è saltata in auto con il marito ed è corsa alla casa paterna. La botola della soffitta, dove spesso Giuseppe andava a cantare o a comporre canzoni, era aperta. Stavolta aveva scritto una canzone triste. Diversa da “Il cuore di un bambino”, scritta da lui e musicata da Francesco Gabbani, che sarà suonata al suo funerale.
Giuseppe era lì, appeso alla scaletta, con una corda al collo. Aveva lasciato due biglietti: uno per l’amico che ha comprato la casa e l’altro per i giudici del Tribunale di Massa.
I figli hanno voluto rendere pubblica la storia e indirizzare una lettera alla comunità.

“Diciamolo chiaramente che questo gesto non è stato fatto perché veniva a mancare un tetto e quattro mattoni, ma per la delusione, il rimorso di aver commesso degli errori, l’averci provato in tutte le maniere, aver provato a far capire ai giudici e non essere ascoltato – hanno scritto – Noi ripetiamo quello che tu ci hai chiesto di far sapere, ma non ti assicuriamo che le persone coinvolte riusciranno a farsi un esame di coscienza”. In ogni caso “ovunque tu sia babbo camminerai a testa alta. Te lo meriti”.