Berlusconi e i cinesi bolliti e cannibali

Vox
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«…Bambini uccisi, messi a bollire e poi mangiati…». Quando ieri Silvio Berlusconi ha citato, parlando del Milan e dei ‘cinesi’, il caso dei maoisti cinesi si è basato su questo passaggio del Libro nero del comunismo (Mondadori, 1998).

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Il contesto è quello della carestia che segnò il definitivo, catastrofico fallimento del Grande balzo in avanti, ispirato alle ricette staliniane in uno Stato contadino come la Cina di allora. Tra il 1959 e il 1962 costò decine di milioni di morti. E cannibalismo.

La fonte del Libro nero, per la fame sotto Mao Zedong, è lo studio di Jasper Becker (corrispondente del quotidiano progressista Guardian) Hungry Ghosts: China’s Secret Famine (1996).

«Casi del genere – dice padre Bernardo Cervellera, sinologo e direttore di Asianews – sono accaduti. Ne parlano anche Jung Chang e Jon Halliday» nella nuova biografia di Mao.
«Tuttavia – conclude -, se oggi si dice di cliniche dove feti sono usati per preparare infusi speciali, mai si è sentito parlare di bimbi bolliti e usati nei campi».
«Il cannibalismo – scrive Philip Short in Mao (Rizzoli) – era comune come durante le carestie della giovinezza di Mao: i contadini si mangiavano reciprocamente i bambini, per evitare di mangiare i propri». Pratica che esisteva prima del comunismo, quella dell’infanticidio, topos letterario, persino (vedi Lu Xun). Per esempio, Jonathan D. Spence, un punto di riferimento, in The Search for Modern China (1990) mette «l’infanticidio in tempi di carestia» tra i fattori chiave della demografia del regno di Qianlong, nel secondo Settecento. E la persistenza, in epoca comunista, di ancestrali efferatezze contro i bambini ha un parallelo nella Cambogia di Pol Pot, quando i suoi Khmer rossi uccidevano piccoli o sventravano donne incinte esattamente come i guerrieri di Angkor mille anni prima.
Insomma: non è una questione ideologica, ma razziale. Consustanziale alla natura delle popolazioni.