Obama: il Nobel della vergogna

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Da ormai un mese, l”attenzione dell’opinione pubblica globale è immersa nelle scelte strategiche e militari che riguardano la Siria, e che possono farla piombare nel mezzo di un conflitto internazionale.

E’ strano notare quanto Barack Obama si stia impegnando per far sì che il proprio esercito lasci un segno bellico di rara violenza in quel di Damasco, magari con l’ausilio degli ascari francesi del marginalmente socialista Hollande; inoltre è altrettanto ironico constatare che il tempo confonda le menti, quasi ribaltando gli accadimenti, come se lo scorrere inesorabile degli anni demolisse irreparabilmente la storia dei popoli.

Perché, andando a memoria, a noi non sembra che l’attuale uomo più potente della Terra sia approdato in sordina alla Casa Bianca nel novembre 2008: oltre l’eccezionalità di aver eletto un nero alla Presidenza degli Stati Uniti d’America, va ricordato che la sua ascesa, venduta come predicatrice di concordia e quiete planetaria,  venne inquadrata dalla stragrande maggioranza dei commentatori come un importante correttivo alla gestione guerrafondaia di Bush.

E veniamo al Nobel sulla ‘fiducia’ – Addirittura un’intera commissione si mobilitò con veemenza nel 2009 per conferire al succitato Capo di Stato la più ‘zuccherosa’ delle onorificenze: quel Nobel per la pace che tante polemiche ha sollevato a causa di una mancante ragione logica e pratica per insignire un allora neo rappresentante di una Nazione così influente. Pareva quasi che l’assegnazione del premio potesse assumere le sembianze di un’anticipazione dell’effettivo operato di Obama, che mirava a rinvigorire la collaborazione tra le genti e le relazioni di politica internazionale. Peccato però che proprio questi 5 anni abbiano dimostrato il complessivo fallimento delle aspettative di Barack Hussein Obama, soprattutto per i demeriti e la negligenza di un estremista, celato da un fittizio mantello democratico.

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Niente dall’inizio del suo mandato ha fatto presagire che le forbite ma poco consistenti chiacchiere pre e post elettorali potessero attuarsi in qualcosa di tangibile: partendo dai presunti tentativi di ripristinare un sana quiete civile, garante di un’umana convivenza sociale, in Medio Oriente, che si sono rapidamente trasformati in armi da fuoco e sangue colante da corpi freddi di innocenti (esacerbando drasticamente i toni di una Primavera Araba che ad oggi sta vivendo periodi cupi e truculenti), passando ai continui botta e riposta, non certo distensivi, avuti nello scorso bimestre marzo/aprile con Kim Jong-un, chiari presagi di una guerra nucleare, bloccata sul nascere solo dall’incapacità cronica di un dinastico bamboccio illuso; giungendo infine alla cronaca quotidiana, dove condannare alla gogna mediatica uno Stato sovrano con una cultura e un’identità nazionale forte, sembra essere diventato il passatempo preferito di buona parte della classe dirigente mondiale.

Dato che nella ‘modernità liquida’ le opinioni e i presupposti cambino ad ogni lustro, è comunque consolante che anche alcuni slogan si modifichino allo stesso modo: dal mellifluo “Yes, we can” allo storicamente suggestivo “Io sto con Assad” dei lealisti siriani di oggi, perché la lotta di una parte dei siriani, che proclama la propria libertà secolare, ha più valore di una medaglietta dorata.

Alex Angelo D’Addio

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Fonte: Identità.com