La telefonata intercettata: “Ora colpiamo l’Italia”

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Una pista del terrore americana per un aspirante jihadista di Torino che voleva colpire in Italia è stata rivelata dal settimanale l’Espresso. La telefonata che fa paura: “Ora colpiamo pure l’Italia?”

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Una pista importante, che si è materializzata martedì 18 luglio, quando due procuratori degli Stati Uniti, con uno squadrone di poliziotti dell’Fbi, si sono presentati a Torino per interrogare un giovane italo-marocchino arrestato in aprile dai carabinieri del Ros. Una procedura di massima sicurezza, con un prologo da film: detenuto nella sezione speciale del carcere di Sassari, l’indagato viene trasportato a Torino in elicottero la mattina stessa della deposizione davanti ai magistrati italiani e americani.

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L’accusato si chiama Mouner El Aoual, conosciuto in Italia come “Mido”. Ha 28 anni e viveva in casa di un’ignara signora di Torino, che lo trattava come un figlio. Ora è in cella con l’accusa di aver diffuso via internet materiale di propaganda e reclutamento del cosiddetto Stato islamico, esaltando i più sanguinosi attentati commessi in Europa. Il tribunale del riesame ha confermato il carcere per entrambi i reati: associazione terroristica, come semplice partecipante, e apologia delle stragi dell’Isis. La Procura di Torino ha indagato per mesi, con intercettazioni e accertamenti di ogni tipo, per scoprire se Mido avesse qualche complice in Italia, ma l’inchiesta lo ha escluso: il ragazzo parlava di terrorismo solo con misteriosi interlocutori esteri. Come molti affiliati all’Isis, era un personaggio dalla doppia vita, abile nel dissimulare, anche nella sua famiglia italiana, il lavoro segreto su internet a favore dell’Isis.

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Appena arrestato sembrava un pesce piccolo, che si limitava a frequentare un canale del cosiddetto dark web al centro di questa indagine e frequentato da oltre diecimila integralisti sparsi in mezzo mondo. La rete di comunicazione, denominata “Lo Stato del califfato islamico”, funzionava sul social network Zello e sul canale di messaggistica Telegram, che garantisce l’anonimato. Ma ora le indagini americane, confermate da nuovi accertamenti di Torino, disegnano un identikit molto più preoccupante. Mido era in realtà uno degli “amministratori” del sistema più segreto di comunicazioni informatiche dell’Isis. Aveva raggiunto il vertice di una scala gerarchica che, alla base, ha una massa di semplici “uditori”, che possono soltanto leggere o ascoltare le conversazioni degli altri fanatici, senza poter intervenire. Le indagini hanno schedato ben 12.341 di questi possibili seguaci passivi dell’Isis, tutti protetti da profili anonimi. Un gradino più in alto ci sono gli utenti con diritto di parola. Per essere ammessi bisogna pronunciare il rituale giuramento di fedeltà all’antica legge islamica, registrato nelle intercettazioni. Al vertice della piramide c’è un ristretto gruppo dirigente, articolato in “commissioni” o “rami”. Mouner El Aoual, come confermano le indagini di Torino, era diventato l’amministratore del cosiddetto “ramo del dialogo”, che gestiva sotto il nome di “Ibandawla”. Era lui, dalla sua casa del quartiere Barriera a Torino, a dirigere quella cellula dell’Isis: come amministratore, aveva il potere di ammettere o escludere altri utenti; e aveva accesso anche a chat riservatissime, dove intervengono solo gli altri responsabili delle comunicazioni dell’Isis. Proprio in questo canale si svolge un colloquio, captato diversi mesi fa dai poliziotti dell’Fbi all’interno di un’indagine molto più ampia, che riguarda un possibile progetto di attentato in Italia: è la segnalazione che mette in moto l’inchiesta di Torino. Pochi frammenti di conversazione tra Mido e un presunto stratega dell’Isis, che vive all’estero ed è intercettato dagli inquirenti statunitensi. I due discutono la possibilità di organizzare azioni terroristiche anche in Italia, ma il 28enne italo-marocchino spiega che «gli servirebbe l’aiuto di tre uomini, perché così avrebbero la potenza di 15 persone». Un colloquio che i giudici di Torino, nell’ordinanza d’arresto, definiscono «allarmante». È probabile che attraverso questo canale siano passate anche comunicazioni operative tra terroristi già in azione. E questo spiega la rogatoria che ha portato a Torino i due procuratori americani e i poliziotti federali, con analisti anti-terrorismo e psicologi del comportamento per studiare le reazioni dell’indagato.

Tra inquirenti italiani, europei e americani, lo scambio di informazioni sul terrorismo è normale e frequente. Ma l’arrivo in Italia per un interrogatorio di procuratori e poliziotti americani è un evento raro. I precedenti più famosi risalgono ai mesi successivi alle stragi dell’11 settembre 2001, quando a Milano le indagini incrociarono personaggi legati alla cellula dei piloti-kamikaze di Amburgo e, nel 2003, alla prima rete di terroristi creata in Iraq dal giordano Al Zarqawi, il padre di tutti i tagliagole, ucciso nel 2006.

Mouner El Aoual, arrestato il 18 aprile su richiesta del procuratore Armando Spataro e del pm Enrico Arnaldi, si era avvalso della facoltà di non rispondere nel primo interrogatorio con il gip Edmondo Pio. In questi mesi è stato nuovamente interrogato dai magistrati italiani e ha accettato di parlare. Il 18 luglio ha risposto per ore alle domande dei procuratori americani, che gli venivano rivolte attraverso il giudice di Torino, come prevede la procedura.

Il suo avvocato, Francesco Furnari, ora conferma la svolta: «Il mio cliente viveva in un contesto di forte emarginazione ed è stato ammaliato dagli affabulatori dello Stato Islamico. Ora però si è reso conto della vera natura del suo ruolo e ha deciso di combattere le stesse persone che lo hanno trascinato in quel contesto, collaborando con la giustizia».

La storia di Mido riconferma la micidiale capacità dell’Isis di radicalizzare molto in fretta giovani in crisi cresciuti in Occidente. Alle spalle dell’arrestato c’è un’infanzia molto dura, con un padre violento che picchia la madre. A 17 anni, dopo molte fughe da casa, il ragazzo scappa dal Marocco e arriva in Spagna, aggrappato allo scafo di un barcone carico di migranti.

Nel 2008, dopo varie peregrinazioni in Europa, si ferma a Torino, senza documenti. Vive da sbandato, fuma hashish, ignora i comandamenti dell’Islam. La signora Margherita, impietosita da quel ragazzino che dorme al freddo negli scantinati, lo accoglie nella suo appartamento di Torino. Quasi nove anni di convivenza e mai nessun sospetto. Mido la chiama mamma, tratta suo figlio come un fratello, è gentile, premuroso, sembra lontanissimo dai terroristi dell’Isis, che a parole condanna. Unico infortunio: un decreto di espulsione dall’Italia, datato 13 novembre 2012, che Mido ignora. E la famiglia di Torino lo riaccoglie. «Mi sento tradita da Mido», ha detto la signora Margherita a “La Stampa” dopo lo choc dell’arresto: «L’avevamo salvato dalla droga e lui ci ha pugnalato alle spalle. Ho avuto per anni un terrorista in casa e non me ne sono accorta».

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La dissimulazione fa parte della strategia dell’Isis. Di giorno, a Torino, Mido fa il bravo ragazzo: lavora, sfacchina tra le bancarelle dei mercati, aiuta la sua vice-mamma, condivide computer, giochi e amicizie con il fratello acquisito in Italia. Poi, nel chiuso della sua stanza, tira fuori dal comodino un secondo cellulare, diverso dal telefonino che porta in pubblico, si collega a Internet con un programma installato solo su quell’apparecchio e si trasforma in un predicatore di odio e terrore.

Perché sono tra noi. E dietro ogni islamico si nasconde un potenziale terrorista. Non è un problema di sicurezza, ma demografico.