Ius Soli, Nuovo Italiano voleva fare una strage al centro commerciale di Sesto

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Nel più classico stile di appropriazione dell’identità altrui tipica dello Ius Soli, sul web si faceva chiamare Luca Rossi, un nome che più italiano non si può, ma in realtà il suo nome è Nadir Benchorfi. Professione terrorista islamico.

E voleva fare saltare in aria un centro commerciale ad Arese, lì dove una volta c’era l’Alfa Romeo. Quando Nadir Benchorfi, marocchino, era stato arrestato, a maggio dello scorso anno, i progetti criminali nei suoi computer erano stati interpretati come fantasie o poco più: «Aveva dato la disponibilità a compiere attentati ma non ci sono riscontri su una sua reale e imminente capacità di esecuzione», aveva detto il questore De Iesu. Falso.

Nel processo davanti alla Corte d’assise, infatti, emerge una realtà ben diversa. In aula arriva Cristina Villa, la poliziotta che per molti mesi ne aveva seguito i movimenti. E racconta che l’attentato al centro commerciale non era solo un’idea.

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Benchorfi, che in quel centro ha lavorato come cuoco, fece un sopralluogo durante il quale analizzò con attenzione le misure di sicurezza. E il rapporto sulla sua visita lo mise nero su bianco inviandolo a un indirizzo in Siria, nel cuore di quello Stato islamico da cui riceveva istruzioni e ordini, e cui inviava ogni mese i finanziamenti che raccoglieva negli ambienti milanesi islamici: una media di 6mila euro al mese, utilizzati per fornire di armi al Califfato.

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Nel suo ultimo numero l’Espresso dedica un’ampia ricostruzione alla «finanza del terrore», e torna a parlare anche di Benchorfi e dei suoi progetti: così un allarme rimasto inascoltato torna di attualità e scatena reazioni preoccupate, perché purtroppo da allora nuovo sangue è stato sparso dai martiri di Allah in tutta Europa, e lo spettro di un attacco anche all’Italia si fa concreto. D’altronde Benchorfi viveva a Sesto San Giovanni, la città dove venne a chiudere la sua fuga Amri, il terrorista di Berlino.

Ma a rendere attuale l’allarme sul ruolo di Benchorfi è la testimonianza che il vicequestore Villa ha reso il 16 maggio davanti alla Corte d’assise milanese presieduta da Giovanna Ichino, che sta processando il marocchino per terrorismo dopo avere respinto il tentativo del suo legale di mandare il fascicolo in Germania, dove si allacciarono i primi rapporti tra Benchorfi e gli ambienti integralisti. La Villa, dirigente della sezione antiterrorismo della Digos, ha raccontato come l’uomo, arrivato in Italia da bambino e fino al 2012 apparentemente tranquillo e integrato, era entrato in contatto, tra il 2012 e il 2014 a Dinslaken, con la colonia jihadista di stanza in Germania, compresi un folto gruppo di correligionari poi partiti per il fronte siriano; e di come, rientrato in Italia, aveva continuato a svolgere il ruolo di propagandista e organizzatore appreso in Germania, mantenendo i contatti con i foreign fighter e inviando loro aiuti in continuazione. Lo pseudonimo di Luca Rossi veniva utilizzato da Benchorfi per le sue conversazioni su Telegram, il sistema di messaggistica che permette di inviare messaggi che si autodistruggono dopo essere stati letti. Ciò nonostante, partendo da una fonte confidenziale, la Digos era arrivata sulle sue tracce, Benchorfi era stato interrogato, subito dopo aveva deciso di abbandonare il nickname di Luca Rossi e si era fatto spiegare dai suoi contatti nello Stato islamico come blindare ulteriormente la sicurezza delle comunicazioni: gli stessi contatti cui inviava i soldi, e cui aveva trasmesso il rapporto sul sopralluogo al centro commerciale. In attesa di ordini.