Minniti, migliaia di clandestini italiani per decreto

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Il decreto del ministro Minniti impone ai sindaci di iscrivere all’anagrafe gli immigrati che sono ospiti dei centri d’accoglienza. I quali poi possono accedere ai servizi sociali e alle case popolari

Nel decreto Minniti, sbandierato come soluzione rapida per l’emergenza immigrazione, in realtà si nasconde una norma che obbliga i Comuni all’iscrizione nelle anagrafi dei richiedenti asilo. Una vera e propria bomba contro i nostri enti locali. Ma il ministro Minniti davvero vuole aumentare le espulsioni di immigrati? Davvero vuole accelerare i tempi per mandare via dall’Italia chi non ha diritto di restare? Davvero nel suo decreto ci sono gli strumenti per ottenere questo? A parole, si sa, lui dice di sì. Ma nel testo del provvedimento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 aprile, si annida un dettaglio un dettaglio che si sta abbattendo come un macigno sui Comuni: questi ultimi, infatti, ora hanno l’obbligo, stabilito proprio dal decreto Minniti, di accettare l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo paracadutati nel loro territorio. In altre parole, devono dare carta d’identità e accesso ai servizi sociali a tutti gli immigrati ospiti dei centri di accoglienza spuntati come funghi (e a loro insaputa) nel territorio municipale. Ma perché? Cioè: se l’obiettivo del decreto è ridurre il numero dei richiedenti asilo, accelerando le espulsioni di quelli che non hanno diritto a rimanere, perché si dà la possibilità a costoro di avere la carta d’identità? E l’accesso ai servizi sociali? Perché si proclama a gran voce di voler cacciare i clandestini e poi si danno loro gli stessi diritti degli italiani?

Ricorderete che la contestazione della carta d’identità ai richiedenti asilo non è nuova. La polemica era esplosa quest’estate: di fronte alle incertezze di municipi e Prefetture, il 17 agosto, approfittando dell’Italia distratta dal post Ferragosto, l’allora ministro dell’Interno Alfano emise un’apposita circolare (detta la circolare della vergogna) per stabilire l’obbligo: chi sta in un centro di accoglienza, in attesa di avere una risposta alla sua domanda di asilo, diceva la circolare, deve essere iscritto all’anagrafe e avere regolare carta di identità nel Comune dove ha sede il centro di accoglienza. La decisione scatenò la reazione di molti sindaci, ovviamente in testa quelli che si trovano a ospitare nel loro territorio maxi-conglomerati di immigrati: «Già subiamo il danno del disagio, perché ci date pure la beffa Il comma è stato fatto passare sotto silenzio, evitando il dibattito della residenza anagrafica? Perché anziché aiutarci, ci bastonate ancora?». Sia chiaro, infatti, che la residenza anagrafica (con relativo rilascio della carta d’identità) non è una pura formalità. Attraverso essa, come è noto, si ha accesso a tutti i servizi sociali. In teoria, per esempio, il richiedente-asilo-in-attesa-di-avere-una-risposta-alla-sua-richiesta (alias: un clandestino) può partecipare ai bandi pubblici, come quelli per le case popolari. «Ho pensato a una norma per escluderli, ma temo che potrebbe essere giudicata incostituzionale perché discriminatoria» mi ha confessato un sindaco. E un altro mi ha raccontato di essere stato chiamato dalla Francia a rifondere le spese dei funerali di un clandestino che figurava ancora residente nel suo Comune: presa la carta d’identità, era fuggito dal centro ed era andato all’estero. Ma quando è morto e nessuno lo reclamava, dalla Francia, visto il documento che aveva in tasca, hanno chiamato il sindaco della Bergamasca. E gli hanno chiesto 10.000 euro.

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Il Comune che concede la carta d’identità, infatti, si prende in carico la persona, a tutti gli effetti. Se c’è un problema, se c’è un disagio, se c’è da intervenire economicamente. Ora pensate a tutti i richiedenti asilo ospitati nei centri di accoglienza e immaginate l’impatto che questo potrebbe avere sulle casse, già prosciugate, dei municipi d’Italia. Esatto, avete capito bene: è una bomba pronta ad esplodere. E per questo diversi sindaci avevano fatto opposizione alla circolare Alfano, sfruttando anche il suo incipit zoppicante e piuttosto comico: «Dalle disposizioni normative sembra emergere un quadro certo del diritto…», attaccava il documento del ministero. Ma come «sembra emergere»? avevano protestato i sindaci. Se «sembra» vuol dire che non è certo. E se non è certo noi perché adeguarsi? Perché permettere che una simile mostruosità venga introdotta attraverso una circolare? Su norme che «sembrano»? E per di più nell’Italia distratta del 17 agosto?

Ecco fatto: ci ha pensato Minniti. Il problema è risolto: una simile mostruosità ora è diventata legge. Il «sembra» è trasformato in norma chiara. L’unica costante è l’Italia distratta: il 18 aprile come il 17 agosto, poco cambia. Non se n’è accorto nessuno. Eppure l’articolo 8, comma l, del decreto Minniti recita proprio così: «Il richiedente protezione internazionale ospitato nei centri è iscritto nell’anagrafe della popolazione residente ai sensi etc etc». Ed è vero che i due commi successivi stabiliscono gli obblighi del responsabile dei centri di comunicare se il richiedente asilo si trasferisce o se sparisce, perché il Comune provveda alla cancellazione dall’anagrafe, ma cosa cambia? Intanto è difficile immaginare che ciò avvenga davvero. E poi, in ogni caso, quello che conta è il principio introdotto surrettiziamente, di nascosto, senza dibattito pubblico, nel nostro ordinamento legislativo: dobbiamo dare carta d’identità e accesso ai servizi sociali a persone che non hanno ancora riconosciuto il diritto a restare in Italia, e nella stragrande maggioranza dei casi mai lo avranno. E la domanda si ripete: ma perché mai?

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La contraddizione, in effetti, è evidente: da una parte il decreto Minniti sembra voler tranquillizzare gli italiani, rassicurandoli sulla rapidità delle procedure, sul pugno duro contro i clandestini, sull’accelerazione delle espulsioni. Dall’altra, però, nel silenzio generale, introduce una norma che va nella direzione esattamente opposta, e che provoca infatti la stabilizzazione dei clandestini. Immigrati che non otterranno mai il diritto a restare in Italia, ottengono però subito il diritto di avere la carta d’identità dal Comune dove sono ospitati, con possibilità di accedere a graduatorie e servizi al pari di chi vive, lavora e paga le tasse in Italia da sempre.
Proprio non si capisce quale sia la ragionevolezza di questa norma. Ma intanto si capisce benissimo la sua forza devastante: ancora una volta, infatti, il peso dell’emergenza viene scaricato sui sindaci, cui da tempo sono stati tolti i mezzi e soldi per aiutare i loro concittadini in difficoltà. E che ora si devono pure sobbarcare il peso e i costi degli immigrati. A loro insaputa, per altro. Come al solito. Senza nemmeno un ministro che abbia il coraggio di dirglielo in faccia.