La baby-gang di immigrati che terrorizza Bolzano: seconde generazioni all’assalto

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IL FUTURO CHE STANNO COSTRUENDO PER NOI I GOVERNANTI ABUSIVI

Non vanno più a scuola. Dormono per strada. Conoscono i loro numeri di telefono a memoria perché sono, l’uno per l’altro, una specie di nuova famiglia. Ma è una famiglia rabbiosa, come forse non si era ancora vista in Italia. Registrati dalle telecamere, parlano così: «Hey, maglietta rossa, che cazzo vuoi? Guarda questa cagnetta alla cassa, guarda che troia! Sai chi siamo? Siamo la baby-gang».

Sono i ‘nuovi italiani’ di Bolzano. Quelli ai quali Boldrini e C. vorrebbero dare la nostra cittadinanza con lo Ius Soli. Picchiano i coetanei. Fanno piccoli furti. Odiano la polizia.

«E hanno dentro questa rabbia incredibile che ci interroga» dice Antonella Fava, capo della Procura per i minorenni. «Una volta si sono messi a saltare sui cofani di tre volanti, urlavano e irridevano gli agenti. È stato difficile venirne a capo». E’ stato difficile venirne a capo?

Sono nati quasi tutti a Bolzano, figli di migranti arrivati alla fine degli Anni Novanta dal Pakistan, dal Marocco, dal Perù e dall’Albania. Genitori ‘apparentemente inseriti’. È una baby-gang che si è autonominata tale, forse sulla scia dei primi articoli usciti sulla stampa locale. Durante una rapina al supermercato Despar, addirittura hanno scritto il loro marchio sul volantino delle offerte.

Il nucleo è formato da quindici componenti di età compresa fra 11 e 16 anni. Sono sulla scena da un anno. L’ultima aggressione è del 7 marzo. Vanno in quattro, con i cappucci delle felpe calati in testa, dentro un garage condominiale per rubare uno scooter. Quando la polizia, alle 3 del mattino, rintraccia due di loro per strada, uno colpisce il poliziotto, lo ferisce e riesce a scappare, per poi tornare a casa al mattino e finire in carcere. L’altro, invece, è stato portato in una comunità, che ha praticamente distrutto a furia di calci e pugni. L’avvocato Giovanna Cipolla conosce bene questi ragazzini, per averli incontrati e difesi in tribunale. Ma proprio ieri ha gettato la spugna: «C’è qualcosa che non funziona. Stiamo fallendo. Tutto quello che abbiamo messo in campo in questi mesi per cercare di portarli dalla nostra parte, in realtà li ha allontanati. Ci mancano gli strumenti giusti per affrontare questo fenomeno nuovo. Mi dispiace molto, in particolare nei confronti della madri. Ma ho rimesso il mandato».

Cos’è quest’odio che non passa? Ragazzini che sputano in faccia ai carabinieri, picchiano i coetanei senza nemmeno un pretesto. Spesso si ritrovano al centro commerciale Twenty, birra e Red Bull. Inseguono uno studente a caso, dal McDonald’s verso l’Istituto professionale Gutenberg, brandendo un coltello e una catena in mezzo alla strada. Uno grida: «Lo ammazzo!». E poi giù botte: «Frattura falange distale, trauma cranico facciale, contusione giudicata guaribile in 20 giorni». Lo prendono a calci in faccia. Neppure il personale scolastico riesce a placare questa furia.

Sono delle spedizioni punitive. Ventun procedimenti penali a loro carico.

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«È un gruppo composito, questa è la prima particolarità», dice ancora il procuratore capo Antonella Fava. «Ragazzini provenienti da quartieri lontani, origini diverse, che hanno frequentato anche scuole differenti, prima di smettere di presentarsi in classe. E tutti ci siamo domandati cosa li avesse fatti incontrare». Beh, l’immigrazione, genio.

Già a giugno la banda dei ragazzini era stata contrastata con dei provvedimenti molto seri, tenendo conto del fatto che tutti, tranne due, erano addirittura minori di quattordici anni. Eppure il gip ha scritto: «Un altro aspetto che caratterizza gli appartenenti a questo gruppo e desta notevole allarme, oltre che denotare pericolosità sociale, è la sfrontatezza, l’assoluto mancato rispetto e la mancanza di timore per l’autorità, dimostrato ripetutamente nei confronti delle forze dell’ordine. Anche i più giovani appartenenti alla gang non hanno esitato, in più occasioni, ad offendere e ingiuriare carabinieri e poliziotti intervenuti, anche sputando loro addosso».

Succede in una provincia che con 17.265 reati denunciati nel 2015. Quelli denunciati.

I capi della banda sono i due più grandi, un ragazzino di origini pakistane e un altro di origini marocchine. I servizi sociali sul primo annotano: «I genitori non hanno alcun sistema educativo di riferimento, né in termini contenitivi né di sostegno e accompagnamento alla crescita». Il vicepreside definisce il rendimento scolastico del secondo, almeno fino quando ha frequentato la scuola, con due parole: «Molto scarso». Forse questa storia anticipa un po’ del futuro italiano. Se non li mandiamo via. Se non smettiamo di farli entrare. L’Italia diventerà una giungla multietnica, come e peggio le banlieus parigine.

L’educatore del centro giovanile Charlie Brown, costretto a chiudere per qualche giorno per le scorribande della baby-gang, si chiama Andrea Vigni. Anche lui li conosce: «Sono migranti di seconda generazione. Non riescono ancora a riconoscersi nella nostra cultura e hanno perso il riferimento della loro, sono sballottati fra identità diverse.». I più pericolosi: perché chi non ha radici e non sa chi è, diventa violento.

La madre del capo della baby-gang lavora all’ospedale di Bolzano. Vive con altre due figlie in un palazzo di periferia, popolare.

«Mi sono domandata a lungo da dove arrivasse la loro rabbia e se ci fosse qualche parallelismo con certe situazioni delle periferie francesi», dice il procuratore capo Antonella Fava. «È difficile rispondere. Un fatto che li accomuna è la mancanza di figure paterne di riferimento. Ma se li vedi da soli, lontani dalle dinamiche del gruppo, tornano ad essere semplicemente dei bambini. Dei bambini pieni di collera che un giorno potrebbero diventare preda di qualcuno. È qualcosa a cui penso con grande preoccupazione». Siamo noi le prede, anche grazie a questi magistrati Fava.

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