Italia accoglie i clandestini africani ma respinge i profughi tibetani

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Intervista del PN agli esuli tibetani in Italia:

Erano un centinaio i manifestanti riunitisi a Milano per celebrare il 58esimo anniversario della rivolta di Lhasa. Tra bandiere tibetane, monaci e striscioni che invocavano chance di pace per il Tibet e la ripresa del dialogo tra la Cina comunista e il Dalai Lama, abbiamo incontrato Chodup Tsering, presidente della comunità tibetana in Italia. Chodup è un ex monaco, arrivato in Italia nel 1980 dopo essere scappato dal Tibet quando aveva 5 anni. A chi gli chiede se la manifestazione passerà sotto il consolato cinese lui sbuffa e dice che di cinesi comunisti non ne vuole nemmeno sentire parlare.

Ma il regime comunista cinese fa proprio così paura?
Io credo che la situazione in Tibet sia molto peggiorata. Apparentemente tutto è normale, perché con l’effetto della globalizzazione sembra che la gente viva meglio di una volta, sembra che non ci sia l’invasione. In realtà i cinesi controllano ogni aspetto della vita dei tibetani, e arrestano chiunque esprima una forma di dissenso. Ci sono infiltrati anche tra i monaci, travestiti.

Molti scappano, ma pochi arrivano in Italia.
In Italia la comunità tibetana è composta da circa 200 persone. Molti sono qui oggi. Sono pochi, rispetto alla Svizzera, dove sono circa 3000 o la Francia dove sono circa 2400. Questo perché il governo italiano non riconosce ai tibetani lo status di rifugiati politici. Con qualche eccezione, in Italia dagli anni ’70 ci sono governi di centro sinistra, figli dei vecchi comunisti e quindi amici della Cina e del regime di Pechino. I tibetani che vivono in Italia sono potuti arrivare qui perché in possesso di altri passaporti, io ad esempio sono entrato come missionario buddista, sono un ex monaco, con un passaporto nepalese. Nessun tibetano in Italia ha una vera identità propria.

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Se l’Italia non fa niente di concreto, il resto del mondo occidentale cosa fa?
Finora hanno solo parlato. I capi politici hanno sempre usato frasi oserei dire prefabbricate sul rispetto per i diritti umani e per i diritti basilari del popolo tibetano. E quando lo dicono i cinesi si arrabbiano. Ma poi finisce lì. Non c’è mai stato un atto concreto di pressione sulla Cina affinché riprenda seriamente il dialogo con il governo in esilio o con Sua Santità il Dalai Lama per arrivare a una soluzione pacifica.

E cosa potrebbe fare l’Occidente?
Dagli anni ’90 quando il mercato commerciale è stato aperto alla Cina, e gli europei hanno spalancato le porte alla Cina, c’è stato un atto di sottomissione. Perché ormai la Cina è diventata una potenza anche commerciale. E se la Cina è così potente è grazie all’Europa e all’Occidente.

Quindi lei confida in Trump per cambiare il corso degli eventi?
Io spero, e lo sperano anche tanti tibetani, così come il Dalai Lama, che il presidente Donald Trump faccia qualcosa di concreto. Non so come, non dico che debba interrompere i rapporti commerciali, non lo farebbe nessuno, ma ci sarà pur qualche azione politica che costringa la Cina a fare qualcosa di concreto! E non solo Trump, anche l’Ue può fare lo stesso. Spero che l’Occidente sappia colpire nel segno, prima che la Cina invada l’Europa. Ho già visto un’invasione, mi preoccupo di non vederne un’altra.

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In Tibet c’è anche il fenomeno delle autoimmolazioni, molti cartelli qui chiedono che cessino.
Si, ed è un fenomeno molto triste per noi tibetani della diaspora. Perché abbiamo bisogno di gente giovane che lotti per l’indipendenza, per i diritti umani, per il Tibet. Ma queste persone, monaci, suore, laici, si autoimmolano per disperazione.

Possiamo associare le autoimmolazioni ai kamikaze del mondo islamico?
No. Perché chi si autoimmola non vuole attentare alla vita degli altri. I kamikaze e i terroristi non solo muoiono loro ma uccidono anche gli altri. Invece chi si autoimmola in Tibet non vuole uccidere i cinesi o le loro strutture pubbliche ma solo se stesso perché non ce la fa più. E quando sta morendo l’ultimo messaggio che grida è “libertà e diritti umani per il Tibet” e invoca il ritorno del Dalai Lama in patria. 

Ci consiglia un libro per capire il dramma del popolo tibetano?
Così, sui due pedi vi dico tutti i libri di Sua Santità il Dalai Lama. Oppure Tibet, il fuoco sotto la cenere di Palden Gyatso.

 

Gli unici profughi veri, noi non li vogliamo. La Cina se ne risentirebbe, e non si possono turbare gli affari delle multinazionali con la Cina. Perché mentre il commercio con il paese asiatico è negativo per l’Italia nel suo complesso e le nostre piccole e medie imprese, è invece una manna per le multinazionali. Quelle che controllano i media. Quelle che hanno i politici a libro paga.

Come in Europa, anche in Tibet è in atto un genocidio culturale portato avanti attraverso l’immigrazione di cinesi nella terra dei Tibetani.

Nella capitale, Lhasa, i cinesi sono ormai maggioranza. Questo è un altro esempio di come l’immigrazione sia un’arma di distruzione di massa.

I tibetani si sono ripetutamente ribellati contro le autorità cinesi, accusate di mancare di rispetto alla loro cultura e religione. Ogni volta, la Cina ha risposto rafforzando la propria presenza militare nella regione e aumentando l’immigrazione di cinesi etnici, gli Han, nel Tibet. Perché sanno che il modo migliore per “spezzare” la resistenza dei Tibetani, è renderli minoranza attraverso l’immigrazione.
Nel frattempo, le autorità cinesi stanno incoraggiando i turisti a visitare la regione autonoma, in particolare Lhasa. Quasi 10 milioni di turisti soprattutto cinesi, hanno visitato il Tibet nel 2011. Alla fine del 2012, le autorità cinesi hanno annunciato un grande “piano di conservazione” per la città vecchia di Lhasa. E’ così che in “neolingua” si chiama lo sconvolgimento architettonico. Il progetto prevede che parte del distretto Barkhor della città vecchia venga sostituito da una zona commerciale che comprenderà un grande centro commerciale.

Sulla piazza che si trova di fronte al tempio di Jokhang [nel centro della città vecchia], non si vedono più pellegrini provenienti da altre parti della regione che vengono ad adorare a Lhasa. Non si vedono più le migliaia di lampade utilizzate per illuminare i padiglioni del tempio. Invece, si vedono cecchini sui tetti delle case e uomini armati che pattugliano le strade.
Quello che vediamo a Lhasa oggi sono inaugurazioni di centri commerciali giganteschi creati da accordi sottoscritti tra il governo e il mondo degli affari. Che in comune hanno l’interesse all’annientamento etnico del Tibet.

Il partito comunista cinese sa benissimo che il modo migliore per assimilare un popolo, è distruggerne le tradizioni e l’identità. E per fare questo ecco l’immigrazione e lo sconvolgimento architettonico della città sacra di Lhasa. Questo somiglia a quello che avviene in Occidente: anche qui importazione massiccia di immigrati e sfruttamento massiccio del territorio e sconvolgimento architettonico-culturale delle nostre città con la costruzione di centri commerciali, negozi etnici e Mc Donald’s. Cambiano i padroni, ma il progetto è lo stesso: la dissoluzione dei popoli.