Goebbels, l’ultimo antieroe tragico tra le rovine di Berlino

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Tutti sappiamo come finì i suoi giorni il dottor Goebbels, famoso (e famigerato) Ministro della Propaganda del III Reich. Fra i fedelissimi di Hitler, rimase al suo fianco a Berlino sino alla fine, e, il giorno dopo il suicidio del Führer, dopo aver avvelenato col cianuro i suoi sei figli, si uccise insieme alla moglie Magda accanto al punto in cui erano stati da poco bruciati i cadaveri di Hitler e di Eva Braun.

From frustrated writer to party supremo ? Joseph Goebbels.

Quest’ultimo particolare, quell’accanimento sui propri cari, sopratutto i bambini piccoli (la minore, Heide, aveva 5 anni), è sempre stato motivo di enorme disgusto e stigmatizzato in ogni modo, sin dall’immediato dopoguerra, in libri, film, documentari e tutti i mezzi che la propaganda dei vincitori potè impiegare, come atto barbaro e gratuito di un uomo già per il resto descritto qual feroce antisemita e ideologo della guerra e della violenza (cosa che poi era). Ma atti del genere non sono sempre stati visti in questo modo.

Ricordo sempre come, al liceo, atti di estrema violenza, dettati da una morale e una concezione della vita nate e morte con l’Antichità Classica, che non avrebbero potuto dire (né dicevano) nulla di comprensibile ad un adolescente nato alla fine del XX secolo, venivano presentati in una luce per quanto possibile positiva, se non persino quale esempio di abnegazione, libertà o fedeltà alla Patria (quella stessa Patria che, fuori dall’ora di Greco e Latino, non esisteva più, cancellata dall’ideologia ufficiale pacifista e democratica, oltre che dallo status di Stato-fantoccio degli “alleati” nordamericani). Gli stessi insegnanti che, un’ora dopo, avrebbero parlato con visi contriti e toni gravi di guerre e dittature del XX secolo, ci vendevano un dulce et decorum est pro patria mori se contrabbandato in storie (a volte semplicemente inventate, come quelle del contapalle matricolato Tito Livio) di opliti e legionari che si immolavano per il Sacro Suolo. E qualcuno andava persino oltre, tirandosi dietro qualche amico o parente stretto per evitargli onte o sorti sentite peggiori della stessa morte.

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Ma il caso che più forte fece scattare in me l’analogia col dott. Goebbels viene daun gruppo scultoreo che milioni di turisti hanno visto nei secoli, un capolavoro della scultura ellenistica: il “Galata Ludovisi”, copia dell’originale dell’artista greco Epigono. Esso narra una storia realmente accaduta, e che, secondo alcune versioni, sarebbe stata testimoniata dallo stesso Epigono. Durante una delle spedizioni del Re di Pergamo Attalo I verso l’interno dell’Asia Minore, abitato allora da alcune tribù celtiche (galliche: da qui la denominazione di Galati) restie a farsi tributarie di un sovrano straniero, accadde qualcosa che, all’occhio greco (e non solo), pareva risorgere dalle ceneri della poesia epica. Ormai sconfitti in campo aperto, i Galati superstiti si erano asserragliati per un’ultima resistenza, raccogliendo con sé mogli e figli. Quindi, come ultimo atto, invece della resa, avevano trafitto i propri familiari prima di rivolgere contro di sé quelle stesse spade che, non essendo riuscite a garantir loro una vita da liberi, servivano ora almeno ad evitargli una sopravvivenza da schiavi. Il pensiero che le proprie donne e i propri figli sarebbero vissuti da servi pareva loro prospettiva tanto inaccettabile, che persino ucciderli di propria mano risultava preferibile. Non stupisce, fra i popoli cosiddetti “barbari”, la scelta della morte alla prigionia o schiavitù: anche gli ambasciatori Germani trattenuti prigionieri a Roma all’epoca della congiura di Catilina si suicidano in carcere, e pare che, in una conversazione con alcuni inglesi, il re zulu Shaka avrebbe espresso scandalo e ripugnanza all’idea del sistema carcerario europeo per punire i rei. Ma il particolare della violenza su moglie e figli colpì evidentemente il vincitore, che decise di far raffigurare l’evento nel proprio monumento trionfale.

A quanto riportò poi Albert Speer, Goebbels decise di seguire la stessa strada “per evitare che i vincitori usassero moglie e figli suoi come uno strumento di propaganda”. Benché Magda vedesse inizialmente con riprovazione l’idea di sopprimere i bambini, accettò poi il progetto e lo fece suo con tanta convinzione da essere lei a respingere ogni progetto per risparmiare almeno i sei figli nascondendoli in un ospedale (soluzione a cui aveva tentato di convincerla so medico delle SS coinvolto da Goebbels nell’avvelenamento). Le analogie sono quindi abbastanza evidenti, ma quel che merita di essere sottolineato è che Joseph Goebbels, insieme alla moglie Magda, emerge in una luce ben diversa: quella di un regno morale che non è, come nelle semplificazioni ufficiali, maniaco-criminale o satanico. La sua fine è stata invece l’espressione di un carattere d’acciaio, portatore di valori terribili come terribile ne è stato il coraggio nel perseguirli sino alle conseguenze più estreme. Non meraviglia che l’epoca del pacifismo, del politicamente corretto e della tolleranza lo respinga con disgusto relegandolo all’ultimo crimine commesso da un criminale di guerra. Ma l’epicità e la tragicità colossale degli uomini e degli avvenimenti di quegli anni meritano uno sguardo più acuto, che sappia abbracciare i millenni, oltre le verità ufficiali degli ultimi decenni.

Goebbels stimò preferibile la morte dei propri figli, al saperli condannati ad un’esistenza da reietti, marchiati dalla vergogna di portare il suo nome e il suo sangue, oggetto di rieducazioni e indottrinamenti che egli vedeva come contro natura e umilianti per chi, invece, avrebbe dovuto vivere nell’orgoglio della propria razza e della propria stirpe. Il dottor Joseph Goebbels visse senza concedere pietà a nessuno: morì senza invocarne. Forse, fra un secolo (o un millennio…), un’altra epoca potrà gettare lo sguardo su di lui senza rabbrividirne.

 

Fonte: Identità.com