La bufala del ‘profugo’ ivoriano

Vox
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L’articolo che segue, sarà il primo di una serie che andrà ad analizzare il fenomeno delle bufale diffuse dagli organi di distrazione di massa per vendere, alle persone poco informate, l’inesistente realtà dei profughi con una completa distorsione della realtà.

L’articolo strappalacrime di Cronache Maceratesi, riguarda un presunto profugo ivoriano(!): Aboubacar, rifugiato ivoriano “Fuggito dalla morte, ora torno a sorridere”

Il 20 giugno è la data scelta dalle Nazioni Unite per celebrare la giornata internazionale del rifugiato. Questo status viene riconosciuto, dopo l’approvazione della richiesta di asilo, a coloro che sono perseguitati nei propri paesi d’origine per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica. Anche la provincia di Macerata, come del resto l’Italia intera, partecipa all’accoglienza e al sostegno umanitario. Aboubacar Konate, 23enne della Costa d’Avorio, dopo aver visto massacrata la propria famiglia è scappato vivendo in clandestinità per circa 4 anni. Macerata lo ha accolto da pochi mesi offrendogli un luogo sicuro dove poter vivere. CM lo ha raggiunto nell’abitazione di San Severino che condivide con altri giovani a cui i propri governi volevano negare il diritto alla vita. Aboubacar ci ha raccontato la propria storia che ha visto una nuova luce solo dopo essere arrivato tra le nostre verdi colline.

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Konate Aboubacar, 23 anni, da qualche mese vive a San Severino
Era un giorno come tanti altri a Abijan, Costa d’Avorio, il 6 marzo 2011. Il paese era alimentato da tensioni politiche per la successione alla presidenza ma nessuno immaginava che la tragedia già bussava alle porte. Konate Aboubacar lavorava nel mondo del commercio, i suoi prodotti tessili vendevano bene al mercato cittadino, si considerava fortunato, quasi ricco. La sua attività cresceva rapidamente e già gli aveva consentito di uscire due volte dal paese, era già stato anche a Dubai, per procurarsi il materiale adatto ad incrementare i propri introiti. Avere un lavoro redditizio a 19 anni in Africa può essere un privilegio raro ma d’altronde sua madre era già nel mondo del commercio e suo padre era un funzionario militare dell’esercito, una buona posizione. Inoltre una grande gioia era in arrivo, la sua fidanzata, in dolce attesa, presto gli avrebbe dato un bambino, un nuovo motivo di speranza e di vita. Grandi progetti nascevano nella mente del giovane che però ancora non sapeva che quel 6 marzo era anche il preludio di una guerra civile che avrebbe portato al massacro di un’intera popolazione, avvenuto concretamente 23 giorni dopo.

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Il viaggio di Aboubacar verso la salvezza. Circa 5.400 km via terra sino alle coste della Libia
«In Costa d’Avorio era in corso una guerra civile per impossessarsi del paese – racconta Aboubacar – due gruppi armati si fronteggiavano per la successione al potere. Mio padre era nel corpo militare, col governo, ma venne tradito. Tutta la mia famiglia fu trucidata. Altri vennero bruciati vivi, molti macellati. Il paese entrava in una delle più grandi tragedie umane di cui anch’io sono stato protagonista». A 19 anni in Italia si è ancora adolescenti. Per molti è il momento di una delle scelte più importanti della vita: entrare nel mondo del lavoro o decidere quale università frequentare. Anche Aboubacar, ormai solo, era stato messo di fronte ad una scelta irrevocabile: abbandonare immediatamente il paese o venire brutalmente trucidato come era già successo a tutti i membri della sua famiglia. «Da un giorno all’altro siamo diventati stranieri nel nostro paese, tutti nessuno escluso perché entrambi le fazioni politiche hanno iniziato i massacri». Così inizia la vicenda della maggior parte dei rifugiati e dei richiedenti asilo, con un viaggio forzato di dolore verso nessuna speranza. La prima tappa è stata il Burkina Faso, paese limitrofo che offriva la possibilità di varcare il confine a piedi. «Senza poter prendere niente sono scappato per andare in Burkina Faso come clandestino. Insieme a tanti altri disperati come me ho camminato per 6 giorni nella foresta. Decine di persone morivano per la fame. Dietro di noi la polizia ivoriana ci inseguiva e ci uccideva per non farci uscire, sapevano che avremmo raccontato gli orrori al mondo intero». Arrivato in Burkina Faso l’unico modo per sopravvivere era cercare un lavoro.

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Il giovane 23enne vicino alla finestra del suo appartamento dove può vedere le pacifiche colline del maceratese
«Dormivo in stazione, facevo qualsiasi lavoro per poter guadagnarmi da mangiare. Ho trascorso così quasi un anno e mezzo, raccimolando i soldi per andare in Libia come hanno fatto milioni di altre persone. Non mi interessava l’Europa, la Libia era già un paese più ricco che offriva prospettive di vita migliori, se di vita si poteva parlare, la mia era ormai distrutta». Si ferma un istante Aboubacar, ripensa alla sua famiglia, a sua madre e alla terra che ha lasciato, gli occhi piangono senza lacrime, come se fossero già state tutte versate. «Prima della Libia ho attraversato il Niger, ma non è un buon posto dove restare, la religione è troppo integralista, dicono che noi della Costa d’Avorio siamo musulmani come i francesi. Così il 22 aprile 2012 sono arrivato in Libia. A differenza degli altri paesi che ho attraversato in Libia sono razzisti contro chi è più nero, possono riconoscermi subito che non sono del posto». Clandestino in un paese fortemente razzista l’unica alternativa alla morte è essere sfruttato.«Lavoravo come contadino, facevo le pulizie, qualsiasi cosa. Il problema è che ero fuori legge quindi spesso i padroni mi cacciavano senza pagarmi minacciando di chiamare la polizia. Sono stato anche in prigione per un periodo, dei ricordi molto dolorosi. Se hai soldi la polizia ti fa uscire altrimenti ti tiene dentro senza neanche darti da mangiare». Poi un giorno Aboubacar viene chiamato per lavorare: purtroppo era una trappola della polizia per arrestarlo di nuovo, l’ordine era “o lasci la Libia in tre giorni o sei morto”, era il 10 novembre 2014. «Ci hanno portato sulla costa, l’unica scelta era prendere il mare, indietro non potevamo tornare. Insieme a me altre 150 persone condividevano il mio stesso destino. Nel porto di Tripoli ogni giorno si può prendere una barca per l’Italia, è semplicissimo. Noi però eravamo stati privati di tutti i nostri averi, la polizia ci ha fornito un gommone con cui lasciare le coste ma poichè non potevamo pagare non avevamo il conducente. Eravamo disperati, nessuno sapeva come dirigere l’imbarcazione abbiamo passato due giorni al porto a piangere».

La partenza è fissata per il 15 novembre 2014, nella notte del 16 appaiono 3 luci rosse nel mare. «Era una nave italiana, ma nessuno ci prestava soccorso. Poi sono apparse altre luci, non sapevamo quale era quella degli aiuti così è scoppiata una lite nella nostra imbarcazione per decidere la rotta, ancora non sapevamo che stava per tornare la speranza». La prima accoglienza è durata 4 giorni sulla nave italiana, era il 20 novembre 2014. «Dell’Italia conoscevo solo i colori della bandiera, quando ho visto il tricolore sulle divise dei militari sono scoppiato a piangere immediatamente. Eravamo in 900 nella nave ormeggiata al largo della costa, ci hanno lavato, hanno buttato i nostri vestiti e hanno separato i profughi dai richiedenti asilo. Hanno preso le nostre impronte e poi siamo sbarcati a Taranto». Aboubacar non ricorda Taranto, dove ha passato solo poche ore. Subito è stato prelevato e inviato ad Ancona, in accordo con i piani di soccorso nazionali per i richiedenti asilo. Qui è stato accolto dal Gus – Gruppo di umana solidarietà – che per il primo periodo lo ha ospitato in un albergo. «Dopo quasi 4 anni di dolore e persecuzioni finalmente ho potuto dormire in un letto pulito, lavarmi col sapone, al sicuro senza la paura di essere rapito di nuovo. La speranza è tornata nel mio cuore».

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Al centro Konate Aboubacar con la sua nuova “famiglia”, tutti ragazzi che condividono un tragico passato
Oggi Aboubacar vive alle porte di San Severino, in provincia di Macerata, con altri 30 ragazzi provenienti da vari paesi africani, tutti che condividono la sua posizione di richiedente asilo. Tutti provengono da una storia tragica di sangue e massacri. In pochi mesi ha imparato l’italiano, passa il giorno a studiare la lingua perchè il suo sogno è trovare un lavoro e avere una vita nuova, lontano dal ricordo dei dolori del suo paese. «Ora non posso lavorare perché devo avere l’autorizzazione della Commissione. Presto però otterrò questo permesso, il mio desiderio è portare mio figlio in Italia. Fortunatamente è ancora vivo, ha 4 anni. Vorrei che studiasse qui, voi conoscete il diritto, in Africa i diritti umani vengono violati barbaramente ogni giorno. Non voglio tornare in Costa d’Avorio, ora non ho più niente lì, se torno mi ammazzano». Tanto dolore nello sguardo di Konate Aboubacar che alla domanda cosa pensa di chi dice di rimandarlo a casa risponde così: «Mi fa male ma a volte credo che non abbiano colpe. Chi non ha visto un leone non può descriverlo. Chi non ha visto l’orrore, la morte e la violenza non può capire». Ha 23 anni ora Aboubacar. La sua famiglia è morta, non può portare fiori sulla tomba di sua madre ma non è più solo. Fa il Ramadan, il digiuno religioso annuale. Ama il calcio ma preferisce studiare. Grazie all’accoglienza è tornato a sorridere e a sperare nel futuro. Insegnerà ai suoi figli i valori del rispetto e della pace, per lui la violenza ora è solo un tormentato ricordo.

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Questo ivoriano sarebbe quindi arrivato in Italia nel novembre del 2014. Ora, si dà il caso, che la cosiddetta ‘guerra civile’ in Costa d’Avorio, durò appena 4 mesi e 2 settimane, l’11 Aprile del 2011 era già finita.

Da allora non c’è nessuna guerra in Costa d’Avorio. Non ci sono disordini. Sono quasi 4 anni. Ed erano più di 3 anni da quando questo ‘rifugiato’ è partito dalla Libia per arrivare in Italia.

Non c’è nessuno che vuole ucciderlo in Costa d’Avorio. Sono tutte fandonie per giornalisti ignoranti di storia e geografia.

E poi: prima la famiglia trucidata. Poi però, pare che il figlio sia vivo. Se ne deduce che questa personcina sia fuggito da presunti massacri lasciando indietro la fidanzata incinta. E che in 3 anni passati in Libia non abbia mai avuto la preoccupazione di andare a salvare il figlioletto dai massacri (inesistenti).

Insomma: una bufala pazzesca. Una bufala che il giornalista e il giornale che hanno pubblicata dovrebbero vergognarsi di avere diffusa. Dando spazio ad un profittatore che vive da un anno in residence a spese nostre.

Ecco lui e gli altri ‘profughi’ nelle colline maceratesi, a raccontare di guerre inesistenti:

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A suon di raccontare bufale su profughi che tali non sono, gli italiani finiranno per considerare clandestini anche i pochissimi profughi veri. E’ questo il ‘servizio’ che i fanatici dell’accoglienza stanno facendo a chi ha veramente bisogno.




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