Carpi: la Caritas aiuta solo gli immigrati

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Un paio d’ore davanti a Porta Aperta, il cosiddetto “ente di solidarietà della Caritas Diocesana”, in realtà uno di quei centri che permette ai Kabobo d’Italia di rimanere nelle nostre città.

«Noi viviamo al campo nomadi – dice una “signora” accompagnata da due giovanissime ragazze con in braccio altrettanti neonati – e siamo qui per incassare qualche spicciolo per dei lavoretti fatti per conto della Caritas. Sono molto gentili a darci qualche impegno pagato, ma non è facile vivere in questa situazione…». Chissà che “lavoretti” hanno fatto, queste “signore”, per la Caritas e i suoi membri.

Ma ecco arrivare un marocchino: «Sono a Carpi da 5 anni e adesso, con due bimbi piccoli e la moglie che non lavora, sono senza stipendio. Continuo a lavorare in un’azienda metalmeccanica, ma da dicembre ci hanno pagato solo un mese. Sono in una situazione difficilissima: non ho soldi per pagare l’affitto e nemmeno per comprare da mangiare. Questa mattina spero che la sporta alimentare gratuita sia ben fornita». Tornare in Marocco no?

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Poi arriva un giovane dell’Est Europa, chissà quali sono le sue mansioni nelle campagne modenesi tra case isolate, ma quando gli diciamo che vorremmo intervistarlo fa un balzo in avanti e sparisce.

Ecco infine una marocchina “nuova italiana” col passeggino, perché se c’è chi li mantiene non smettono certo di riprodursi, è la tesi dell’involuzione della specie: «Sono nata a Carpi e ho studiato al Cattaneo. Mio marito mi è stato presentato nel giro dei nostri connazionali marocchini. Lui fa il taxista a Rabat visto che qui non c’è lavoro e io vivo con i miei genitori. Vorrei lavorare ma non c’è nulla da fare a Carpi se non poche ore di tanto in tanto. Così per non pesare troppo sui miei vengo a chiedere aiuto qui alla Caritas». Così pesa su di noi.

In due ore una caterva di immigrati e una coppia italiana. Questa è la Caritas.

Chi non ha lavoro e non può mantenersi, deve toranre a casa propria. La Caritas aiuti gli italiani, o chiuda. Un tempo li avrebbero chiamati “collaborazionisti”, ed è così che noi li chiamiamo, oggi.